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ERIDANO
Eridanus, Eridani
Eri
La costellazione dell'Eridano nell'Uranographia di Hevelius (1690).
Immagine: http://www.atlascoelestis.com
Un nastro leggero vaga sciolto fra alcune delle costellazioni ormai prossime all’emisfero australe o addirittura già di proprietà esclusiva di questa parte di cielo. L’astronomo tedesco Hevelius, nella sua tavola uranografica (qui sopra) ha messo ben in evidenza il cerchio dell’equatore visto che la costellazione varca abbondantemente la soglia celeste che immette nella volta stellata del Sud.
Questo nastro è in realtà un lungo fiume che scorre in Italia e che anticamente si chiamava Eridano. Tutti oggi lo conosciamo col nome di Po e la sua immagine è annoverata fra le costellazioni grazie a una famosissima e rocambolesca storia che lo ha visto coinvolto nella sua parte finale. L’Eridano infatti accolse le spoglie mortali del figlio del Sole, Fetonte, il quale per la sua incoscienza e impulsività tipica della giovinezza volle a tutti i costi guidare il carro del padre, provocando un vero e proprio disastro cosmico culminato con la sua uccisione a opera di Zeus. Chi ci racconta nei particolari la vicenda di questo ragazzo è uno scrittore latino di portata straordinaria: il suo stile, le sue immagini, le sue parole possiedono un’intensità e una poesia che soltanto da un talento fuori dal comune unito a un animo dalla spiccata sensibilità, possono scaturire. E' Ovidio, poeta vissuto fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., ai tempi aurei dell’imperatore Augusto.
Tutto ebbe inizio in Etiopia, in un tempo leggendario in cui gli abitanti erano bianchi di pelle. I loro sovrani erano Merope e Climene. Un giorno accadde che il dio Febo Apollo, durante la sua quotidiana traversata del cielo da est a ovest per dare la luce alla Terra, si imbatté nella straordinaria bellezza della regina Climene. Improvvisamente si accorse che di lei non poteva fare a meno e desiderò amarla. Anche la donna rimase rapita al cospetto del dio il cui nome, Febo, significa “lo splendente” e che tale era non solo in virtù del Sole che trasportava sul famoso carro, ma anche perché era il dio della poesia, della musica, il dio nel cui aspetto e nelle cui inclinazioni incarnava il sublime. Fu così che Apollo e la regina etiope si amarono e dal loro amore nacquero le Eliadi, cioè le figlie di Elio – nome greco del Sole – e Fetonte.
Fetonte aveva come amico un altro figlio divino, Epafo, nato dall’unione della dea Iside con Giove, e fu proprio una battuta del coetaneo la scintilla che avrebbe scatenato l’imminente putiferio. Epafo infatti tacciò Fetonte di ingenuità e presunzione per la sua ostentazione di essere il figlio di un dio che in realtà non aveva mai visto e che per di più sosteneva essere il magnifico Apollo.
“Sciocco, tu credi a tutto quello che ti dice tua madre,
e vai tronfio di un padre immaginario”.
(Ovidio, Metamorfosi, I, 753-754)
Chiunque, a proposito di un tema così importante e delicato quale quello delle origini personali, non tollererebbe mai un simile affronto e desidererebbe dimostrare a tutti con qualsiasi mezzo la propria identità. Così infatti intese fare Fetonte. Corse dalla madre e in preda a rabbia mista a disperazione, la supplicò di dargli un segno affinché avesse la certezza matematica di essere figlio di un dio.
Climene – non si sa se spinta più dalle preghiere del figlio
o dall’ira per essere stata messa sotto accusa
– levò al cielo tutte e due le braccia e guardando diritto verso il Sole esclamò:
“Per questo fulgore splendido di raggi balenanti, che ci vede e ci ode,
io ti giuro, o figlio, che tu sei nato da questo Sole che ti sta di fronte,
da questo Sole che regola la vita sulla terra.
Se quel che dico è menzogna, mai più egli mi consenta di guardarlo
e sia questo per i miei occhi l’ultimo giorno.
Del resto, non ti ci vorrà molto a trovare la casa di tuo padre.
Il luogo dove dimora, e da dove sorge, è vicino alla nostra regione.
Se così ti aggrada, vai, e informati da lui direttamente”.
(Ovidio, Metamorfosi, I, 765-775)
Fetonte non indugiò e, con il cuore ansioso per l’imminente incontro col padre ancora sconosciuto, si mise in viaggio verso Oriente fino a che, oltrepassata l’India, giunse finalmente alle porte della colossale e altissima residenza di Apollo: un palazzo interamente rivestito d’oro, rame e avorio. Fetonte venne condotto al cospetto del dio ma non poté avvicinarsi più di quel tanto per via della luce accecante che il padre sprigionava. Ecco come si presentò la scena a Fetonte:
Il Sole sedeva, avvolto in un manto purpureo,
su un trono scintillante di fulgidi smeraldi.
A destra e a sinistra stavano il Giorno e il Mese e l’Anno,
e i Secoli, e le Ore disposte a uguale distanza l’una dall’altra;
stava la Primavera incoronata di fiori, stava l’Estate, nuda,
che portava ghirlande e spighe, e stava l’Autunno
imbrattato di uva calpestata, e l’Inverno ghiaccio,
con i capelli irrigiditi.
(Ovidio, Metamorfosi, II, 23-30)
Apollo era fiero di essere il padre di Fetonte, il ragazzo era il simbolo dell’amore che lo univa a Climene, e non gli avrebbe negato nulla pur di tranquillizzarlo in merito alla sua discendenza. Il giovane aveva un solo desiderio: essere lui per un giorno a dare la luce agli uomini guidando il carro del Sole. Tutto Apollo si sarebbe aspettato fuorché una richiesta del genere, tanto inequivocabile quanto sconsiderata. Che fare? Accontentare il figlio per far fede alla promessa fattagli o rifiutarsi in nome della saggezza che la lunga esperienza gli conferiva? Più volte tentò Febo di dissuadere il figlio, illustrandogli quanto la traversata fosse in realtà una quotidiana impresa che lui, soltanto lui, poteva portare a compimento, e comunque non senza fatica; lui soltanto lui, nemmeno Giove il re degli dèi avrebbe saputo farlo. Mantenere la giusta traiettoria era un compito delicatissimo: la furia dei quattro cavalli che trainavano il cocchio richiedeva una mano forte e salda che li sapesse domare; vi erano poi alcune costellazioni minacciose come il Toro, il Leone e il Granchio che bisognava saper “prendere” per non scatenarne l’ira; ed era importantissimo approdare a Occidente dopo aver eseguito tutto secondo le regole quando il giorno volgeva al termine, perché sia alla terra che al cielo occorreva dare il giusto calore. In una parola, non ci si poteva permettere di sbagliare. Ma gli avvertimenti furono tutti inutili. Fetonte non ne voleva sapere, e più Febo tentava di persuaderlo, più il ragazzo dubitava di avere discendenza divina. Finché Apollo davanti a quegli occhi per la seconda volta lucidi di rabbia e amarezza, si arrese e, pur con grande preoccupazione, assecondò il figlio. Era nel frattempo giunta l’ora di sorgere…
Allora il padre spalmò un sacro medicamento sul volto del figlio,
perché tollerasse le vampe voraci, gli pose sulla chioma i raggi,
e di nuovo emettendo sospiri d’ansia dal petto,
presagendo sventura, disse: “Se puoi seguire almeno questi consigli di tuo padre,
evita, ragazzo mio, di spronare, e serviti piuttosto delle briglie.
Già tendono a correre di suo: il difficile è frenare la loro foga.
E cerca di non tagliare direttamente le cinque zone del cielo.
C’è una pista che si snoda obliquamente, con una gran curvatura,
e resta compresa entro tre sole zone senza toccare né il polo australe,
né l’Orsa dalla parte dell’Aquilone. Passa di lì;
vedrai chiaramente le tracce delle ruote.
E perché il cielo e la terra ricevano pari e giusto calore,
non spingere in basso il cocchio e non lo lanciare troppo in alto nel cielo.
Spostandoti troppo verso l’alto, bruceresti le dimore celesti;
verso il basso, la terra. A mezza altezza andrai sicurissimo.
E bada che le ruote non pieghino troppo a destra, verso il Serpente contorto,
o non ti conducano troppo a sinistra, giù verso l’Altare.
Tieniti fra l’uno e l’altro. Per il resto mi affido alla Fortuna,
che ti aiuti e pensi a te, spero, meglio di quanto sappia fare tu stesso.
Mentre parlo, la Notte umida ha toccato la meta
segnata sulle coste di ponente.
Non ci è permesso indugiare, tocca a noi:
l’Aurora, scacciate le tenebre, risplende”.
(Ovidio, Metamorfosi, II, 122-144)
Di tutti i suggerimenti paterni, nemmeno uno fece in tempo a essere seguito. Non appena i cancelli si aprirono infatti, i cavalli si lanciarono all’impazzata come ogni giorno nel cielo immenso, e subito si accorsero che l’auriga non era quello che conoscevano: il suo peso era leggero e le briglie non avevano la tensione e gli strappi a cui erano abituati. In un attimo il carro sobbalzò e sbandò. Fetonte era in preda al panico e non sapeva come tenere i cavalli.
Allora per la prima volta i raggi scaldarono la gelida Orsa,
la quale cercò, invano, d’immergersi nel mare ad essa vietato
ed il Serpente, che si trova vicino al polo glaciale
e che prima era intorpidito dal freddo e non faceva paura a nessuno,
si riscaldò e a quel bollore fu preso da una furia mai vista.
Raccontano che anche tu disturbato fuggisti, Boote,
benché fossi lento e impacciato dal carro tuo.
Quando poi l’infelice Fetonte si volse a guardare dall’alto del cielo
la terra che si stendeva in basso, lontana, lontanissima, impallidì,
e un improvviso sgomento gli fece tremare le ginocchia,
e in mezzo a tutta quella luce un velo di tenebra gli calò sugli occhi.
(Ovidio, Metamorfosi, II, 171-181)
Fetonte si pentì di ciò che aveva desiderato e si maledisse per la sua sconsideratezza, ma ormai era troppo tardi. I cavalli lo trascinavano in una folle corsa nel fuoco senza avere la minima idea di dove stessero andando. E così si avventurarono prima troppo in alto fino a cozzare contro le regioni più lontane, poi troppo in basso, vicinissimi alla Terra che divenne tutt’a un tratto una trappola incandescente.
I punti più alti del pianeta cominciano a prendere fuoco,
il suolo perde gli umori, si secca e si fende,
i pascoli si sbiancano, alle piante si bruciano le fronde,
e la messe inaridita fa da esca al flagello che la divora.
Ma questo è niente. Ecco che grandi città van distrutte con le loro mura
e gli incendi riducono in cenere intere regioni con le loro popolazioni.
(…)
E così Fetonte vede la terra accesa da tutte le parti,
e non resiste più a tutto quel calore (…).
(Ovidio, Metamorfosi, II, 210-228)
Quella traversata maledetta avrebbe cambiato per sempre i connotati della madre terra, dando a determinati tratti le sembianze che conosciamo oggi. Per esempio,
Dicono che fu allora che il popolo degli Etiopi,
per l’affluire del sangue a fior di pelle, divenne di colore nero;
fu allora che la Libia, evaporati tutti gli umori, divenne un deserto.
(…).
Il Nilo fugge atterrito ai margini del mondo e nasconde il capo,
che non si è più riusciti a trovare;
le sue sette foci restano asciutte, polverose:
sette letti senz’acqua.
(Ovidio, Metamorfosi, II, 235-256)
Lo sconvolgimento poi non fu soltanto della geografia terrestre, ma anche della gerarchia cosmica che quel giorno fu del tutto sovvertita: per la prima volta infatti la luce del Sole giunse là dove era proibito illuminare, nelle profondità del Tartaro, il regno dei morti custodito dai sovrani Ade e Proserpina.
Superfluo raccontare ciò che accadde al mare e ai suoi pesci; l’acqua era in gran parte evaporata e tutte le sue forme di vita, dalle piante agli uomini, stavano scomparendo per sempre, inghiottiti dal fuoco o dal suo calore.
Ma questo non poteva permetterlo la madre terra! E così, in uno sforzo al limite delle energie, implorò Giove affinché mettesse fine a quella maledizione.
Allora il padre onnipotente, chiamati a testimoni gli dèi
(compreso il Sole che aveva prestato il carro)
che tutto sarebbe perito di morte crudele se non interveniva,
salì in cima alla rocca da cui suole far calare sulla terra i banchi di nubi,
da cui fa rimbombare i tuoni e vibra e scaglia le folgori.
(…).
Tuonò, e librato un fulmine all’altezza dell’orecchio destro,
lo lanciò contro il cocchiere sbalzandolo via dal carro e dalla vita
e arrestando l’incendio con una spietata fiammata.
(…).
Fetonte, con la fiamma che divora i capelli rosseggianti,
precipita su se stesso e lascia per aria una lunga scia,
come a volte una stella può sembrare che cada,
anche se non cade, giù dal cielo sereno.
Finisce lontano dalla patria, in un’altra parte del mondo,
nel grandissimo Po, che gli deterge il viso fumante.
(Ovidio, Metamorfosi, II, 304-324)
Questa fu la fine di Fetonte che volle guidare il carro del Sole.
Ma la storia in verità non finisce qui. Nonostante l'accaduto infatti, nessuno odiò mai quel ragazzo. Anzi, sia il padre che la madre, le sorelle e le ninfe chiamate Naiadi lo piansero a lungo ai bordi dell’Eridano. E in quella circostanza accadde che le rive del Po si orlarono dei caratteristici pioppi che da allora lo accompagnano nel suo lungo tragitto. Fino ad allora erano spoglie ma in quei giorni, mentre le sorelle si battevano il petto in un pianto ininterrotto, i loro corpi si trasformarono in alberi, dapprima i piedi e poi su fino ai capelli, che divennero verdi fronde. Alle Eliadi rimase solo la bocca per chiamare la madre e annunciarle l’inatteso prodigio; finché la corteccia non le privò per sempre anche della parola, e allora dal legno fuoriuscirono lacrime di una sostanza nuova: l’ambra, che al calore del sole si indurì e cadendo nel fiume, venne trasportata dalla corrente. Le metamorfosi contagiarono anche un caro amico di Fetonte che, come le Eliadi, stava piangendo in riva al Po l’audace figlio del Sole. Si chiamava Cicno e tutt’a un tratto vide il suo corpo trasformarsi in quello di un uccello, un uccello mai esistito fino a quel momento: il cigno.
Di fronte a una favola tanto coinvolgente, l’arte non poteva mancare l’appuntamento. E infatti, la storia di Fetonte è stata celebrata da moltissimi artisti che, oltre ad avere una sostanziosa risorsa da cui attingere per manifestare il loro genio, ne approfittarono per esprimere attraverso l’arte a cosa conduce la superbia umana quando pretende di misurarsi con la potenza divina. Oppure, un’altra interpretazione fu quella della rovina a cui andò incontro il giovane sprezzante che disdegnò i consigli di chi era più vecchio e aveva più esperienza di lui, in questo caso il padre Apollo.
Fra i tanti dipinti, vedremo una selezione di cinque capolavori di maestri di grosso calibro come Poussin, Rubens, Guido Reni, Johann Liss e Michelangelo.
Dei cinque artisti, il francese Nicolas Poussin è l’unico che non ha rappresentato il mito nel suo tragico momento culminante, ossia quando Fetonte viene folgorato e cade nell’Eridano. Il pittore ha voluto invece raffigurarlo quando chiede al padre di poter guidare il carro.
Nicolas Poussin ha ritratto Fetonte che chiede ad Apollo di poter guidare il carro (Staatliche Museen, Berlino, 1635).
Il suo dipinto ricalca in molta parte i versi di Ovidio: il ragazzo è inginocchiato davanti al Sole, il quale è seduto sul suo trono d’oro raffigurato sottoforma di fascia zodiacale, come si nota dai segni incisi. Attorno a lui sono chiaramente riconoscibili le stagioni: alla sua destra stava la Primavera incoronata di fiori, alla sinistra di Fetonte invece stava l’Estate, nuda, che portava ghirlande e spighe, addormentato ai piedi di Apollo ecco l’Autunno imbrattato di uva calpestata, e per finire, infreddolito e tremante, alle spalle di Fetonte siede l’Inverno ghiaccio, con i capelli irrigiditi. Avanza alato verso il Sole suonando il flauto di Pan, Euro, il vento che nasce a Oriente. Fetonte invece sta chiedendo il carro – visibile solo in parte – come si comprende dal braccio sinistro con cui lo indica, mentre il padre, attraverso l’eloquente gesticolazione, tenta di dissuaderlo spiegandogli la pericolosità della richiesta. Sullo sfondo a sinistra si riconosce Teti che, nel racconto di Ovidio, è colei che apre i cancelli quando Apollo deve partire. Una delle Ore è invece incaricata di aggiogare i cavalli, dei quali se ne vede uno.
Questo capolavoro di Nicolas Poussin dalle dimensioni imponenti di 122x153 cm risale al 1635 circa ed è visitabile a Berlino allo Staatliche Museen.
La scena invece si carica di violenza e ogni punto di riferimento viene scardinato nell’apocalittica rappresentazione di un altro grande della pittura, il fiammingo Peter Paul Rubens.
La caduta di Fetonte di Rubens (National Gallery Of Art, Washington, inizio XVII secolo).
Il quadro si trova a Washington nella National Gallery Of Art ed è stato composto negli anni 1604/1605 per poi essere probabilmente rielaborato negli anni 1606/1608. Qui Fetonte non è il solo protagonista del dipinto ma, in preda al panico, vi sono coinvolte anche le Ore e le Stagioni, le prime raffigurate con ali di farfalla. I cavalli sono in balìa della furia più totale, mentre Fetonte, colpito a morte dal fulmine di Zeus, è sbalzato dal carro e inizia la sua lunga caduta nell’aria rovente. Tutto è fuori controllo, salvo il fulmine del padre degli dèi che, come una potente e salvifica luce, interviene a ripristinare l’ordine cosmico.
Sul soffitto della Sala d’Onore di Palazzo Zani a Bologna, si può ammirare la caduta di Fetonte dipinta dal pittore bolognese Guido Reni nel 1599 circa.
La caduta di Fetonte di Guido Reni (Palazzo Zani, Bologna, 1599).
Il famoso artista quando dipinse l’affresco, non era ancora così celebre come sarebbe diventato in seguito. Aveva solo ventiquattro anni, ma vantava collaborazioni importanti con la famiglia Carracci e con l’architetto Ambrosini, entrambi nomi di rilievo nel capoluogo emiliano del XVI secolo, e la nobile famiglia Zani proprietaria di questo bel palazzo, gli commissionò l’opera del Fetonte. Ecco allora che guardando il soffitto della sala, il ragazzo sta precipitando verso l’osservatore mentre i bianchi cavalli si dividono come per aprirgli la strada della caduta libera.
Lo sfondo è un cielo ferito dalla folgore di Zeus e dalle fiamme incautamente sperperate, che abbracciano Fetonte morente. In basso a sinistra si vede invece un pezzo di una ruota del carro e il cielo azzurro là dove Fetonte l’ha risparmiato.
Avvicinandoci di più invece alla figura dell’Eridano, abbiamo un paio di soggetti in cui l’artista che vi si è dedicato ha ritratto anche il fiume.
Uno è il dipinto di Johann Liss, risalente all’inizio del XVII secolo e custodito alla National Gallery di Londra.
La caduta di Fetonte di Johann Liss (National Gallery, Londra, 1624).
Qui la scena racchiude tutti i particolari presenti nel racconto di Ovidio: Fetonte, con la fiamma che divora i capelli rosseggianti, precipita su se stesso e lascia per aria una lunga scia. A terra osservano spaventate e pronte a cercare riparo, le Naiadi d’Occidente, le ninfe che abitavano il fiume, visibile insieme al suo corso tortuoso e ancora privo dei pioppi che di lì a poco l’avrebbero incorniciato.
Sdraiato a destra il vecchio che si vede è proprio Eridano che, come è consuetudine della mitologia, viene antropomorfizzato.
Per finire, c’è una bellissima bozza del grande Michelangelo, che, come in molte altre occasioni, disegnò per l’amico Tommaso Cavalieri.
La caduta di Fetonte di Michelangelo (National Gallery, Londra, 1533).
Si tratta appunto di una bozza, in quanto Michelangelo prima di terminarlo voleva sapere dal Cavalieri se era di suo gradimento fatto così o se doveva rappresentare la scena in altro modo. Questo è il contenuto delle righe scritte alla base del foglio.
Il disegno è estremamente chiaro e suggestivo: partendo dall’alto, vediamo Zeus in groppa alla sua aquila che scaglia il fulmine letale sul giovane Fetonte, il quale è bruscamente disarcionato e inizia a precipitare a testa in giù verso il suolo. Anche i quattro cavalli di Apollo subiscono il contraccolpo del fendente di Giove e seguono Fetonte nella sua caduta. A terra invece sono raffigurate le sue sorelle, le Eliadi, còlte nell’attimo in cui si stanno trasformando in pioppi: la corteccia fascia impietosa le loro gambe, le dita divengono lunghi rami e la metamorfosi le blocca in posizioni innaturali e sofferenti. In piedi a destra sta invece l’amico Cicno nei suoi ultimi istanti da essere umano; mentre sdraiato a sinistra e unico esente da eventi traumatici, osserva impassibile la scena Eridano, riconoscibile dalla brocca d’acqua che tiene nella mano destra. I fiumi infatti, quando vengono personificati, sono sempre raffigurati con in mano una brocca da cui esce l’acqua, attributo inconfondibile per l’identificazione. La caduta di Fetonte di Michelangelo risale al 1533 ed è custodita al British Museum di Londra.