V: Ritorno a Serifo
Insieme con Andromeda, Perseo si mise sulla strada del ritorno. Poteva finalmente concentrare i suoi pensieri sulla madre e, forse per questo, ne sentì amplificata la mancanza nonostante i giorni che lo separavano da lei fossero ormai pochi. Questi giorni infine passarono. I due giovani sposi approdarono a Serifo e come Perseo poggiò i piedi sulla sabbia dell'isola delle Cicladi, sentì un'aria familiare, quella di Ditti, il pescatore fratello di Polidette che lo aveva liberato dalla cassa di legno e lo aveva allevato. Tuttavia, quando giunse al palazzo reale, il senso di familiarità svanì istantaneamente e non gli ci volle molto per capire che la situazione era ben più grave di quando era partito.
Tornato a Serifo, trovò che sua madre, insieme con Ditti, si era rifugiata sugli altari degli dèi per evitare la violenza di Polidette.
(Apollodoro, Biblioteca, 2.4.3)
A tanto si era spinto il re; il giovane si precipitò da lui per porre fine a quella scena vergognosa grazie alla sua conquista oltre Oceano.
Polidette, come vide Perseo, restò interdetto per qualche attimo; mai si sarebbe aspettato di rivederlo e per di più vivo. Ma dentro di sé si tranquillizzò pensando che se era tornato, era perché non aveva portato a termine la missione, come era ovvio del resto. E rientrato nel suo solito fare borioso, lo accolse con una sonora risata denigratoria. Nemmeno alla vista della kibisis che Perseo sollevò tendendo il braccio, si preoccupò; l'idea che lì dentro vi fosse il capo tranciato di Medusa non lo sfiorava minimamente e si aprì in un'ancor più irritante risata.
Ciò nonostante tu, Polidette, re della piccola Serifo, non ti eri ancora lasciato rabbonire
né dal valore del giovane, dimostrato con tante gesta meravigliose,
né dalle sue traversie. Imperterrito, continuavi a nutrire per lui
un odio implacabile, e la tua ira malvagia non aveva fine.
Denigrasti perfino la sua impresa più gloriosa,
sostenendo che non era vero che avesse ucciso Medusa:
“Ti darò la prova. Gli altri si girino!”, disse Perseo,
e col volto di Medusa fece del volto del re una pietra senza sangue.
(Ovidio, Metamorfosi, V, 242-249)
"Non provocare un eroe che ha messo a repentaglio la propria vita per mantenere una promessa", queste parole echeggiavano nella mente ancora viva di Polidette. Ma ormai era troppo tardi. L'abbraccio di Danae a suo figlio fu insieme una compressione di gioia, di pianto, di abbandono, di gratitudine. L'isola di Serifo invece fu affidata al generoso Ditti e con questo gesto Perseo rinnovò la testimonianza al suo ideale di giustizia.
Le sofferenze di tutta una vita erano davvero finite. Come un guerriero di ritorno da una lunga guerra depone finalmente le armi, così Perseo si accinse a restituire quanto gli era stato donato dagli dèi e dalle Ninfe. Rese dunque la falce a Ermes e a lui lasciò anche i sandali alati, la kibisis e l'elmo di Ade affinché li riportasse alle figlie di Notte. Ad Atena invece regalò il frutto del suo coraggio, la sua fatica più grande: la testa di Medusa. La dea la pose al centro dello scudo come trofeo ed emblema di giustizia compiuta. Da allora quella che era l'arma difensiva di Atena divenne anche offensiva per via del potere terribile che sprigionava se solo la si guardasse.
Ma nel felice esito della vicenda di Perseo, vi era però ancora una cosa che nella mente del ragazzo premeva, un desiderio e un bisogno allo stesso tempo, che troppo a lungo aveva dovuto reprimere.
C'era una persona ad Argo che aveva visto soltanto due volte. Era molto piccolo quando accadde, tanti anni erano passati, eppure la ricordava perfettamente: una figura che scendeva le scale della camera di bronzo dandogli le spalle, rischiarata unicamente dalla torcia che teneva.