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ARIETE
Aries, Arietis
Ari
La costellazione dell'Ariete nell'Uranographia di Hevelius (1690).
Immagine: http://www.atlascoelestis.com
La costellazione evoca il noto ariete dal vello d’oro, protagonista di due vicende mitiche di cui narreremo quella che in ordine cronologico, è la prima ad accadere.
Il manto d’oro ci induce a immaginare una costellazione estremamente brillante, ma a sorpresa constatiamo che non solo essa non è particolarmente luminosa, bensì è alquanto debole. Le sue stelle principali infatti superano la terza magnitudine, quindi splendono in modo modesto.
Come mai tale contraddizione?
La risposta si trova in una favola lontana, intrisa di passioni, delitti, riti sacrificali e trasfigurazioni.
Nella trama intricata e segnata da vendette di sangue, l’ariete interviene come personaggio salvifico e per questo viene posto in cielo sotto forma di costellazione. Lui solo però: il suo manto lucente resta sulla terra – da qui il motivo per cui la costellazione non esibisce lo splendore atteso – custodito da un drago in una regione lontanissima dalla Grecia dove tutto ebbe inizio.
Probabilmente dovremmo immaginare l’inizio di questa storia avvolto nel sibilo lungo di un vento vigoroso; anche se non viene mai detto esplicitamente, i riferimenti a esso sono molteplici. A ben vedere infatti il mito è pervaso dal primo dei quattro elementi, cioè l’aria: il vento è l’entità che a più riprese si fa parte costituente della vicenda, una comparsa che per sua natura giunge improvvisa e scompiglia, mescola, prende e porta via, dissolve i protagonisti come fossero foglie d’autunno di nessun valore.
E così, per primo, il vento ci parla di uno dei suoi figli, Atamante, il cui padre era Eolo, il dio di tutte le correnti che attraversano il cielo. Atamante regnava sulla Beozia ed ebbe tre mogli, ciascuna delle quali gli diede due figli. Una si chiamava Nefele che in greco significa nuvola – altro elemento associato all’aria – dalla quale ebbe un maschio, Frisso, e una femmina, Elle. Atamante ebbe accanto anche Temisto, grazie alla quale diventò padre di Sfincio e Orcomeno. L'ultima consorte si chiamava invece Ino e vantava genitori che tutti conosciamo bene, almeno per sentito dire: Cadmo e Armonia. Con lei Atamante generò i figli Learco e Melicerte. Le fonti sono discordi per quanto riguarda l’ordine in cui le tre donne andarono in sorte al figlio di Eolo; quello che però è certo è che dei sei figli, cinque vennero uccisi, chi per mano del padre e chi per mano di una delle tre madri. Ragione di tutti gli omicidi fu la gelosia che ciascuna donna provava per la rivale da cui era stata scalzata.
Secondo alcuni cominciò – ma non ha importanza – Temisto che tramò di uccidere Learco e Melicerte, i figli di Ino. Il suo piano però fallì grazie al fatto che, ignara, lo svelò proprio a Ino. Temisto infatti non l’aveva mai vista, ne aveva solo sentito parlare e, quando la conobbe, la credette una schiava di guerra, non già la moglie di Atamante. Quest’ultimo infatti, credutala morta, la stava tenendo nascosta in seguito al ritrovamento. La donna cercò la complicità di Ino e le confidò appunto la sua strategia, la quale prevedeva che la presunta serva vestisse con tuniche nere Learco e Melicerte, mentre i propri figli avrebbero indossato vesti bianche. Lo scopo era uccidere i due fanciulli senza possibilità di sbagliarsi nel riconoscimento. Naturalmente Ino non vestì i propri figli di nero, ma non perse nemmeno l’occasione per vendicarsi, e così scambiò gli abiti infilando le tuniche funeste a Sfincio e Orcomeno. Temisto, sicura del suo bersaglio, sferrò i colpi mortali senza indugiare. La sorpresa fu tragica: aveva ucciso i propri figli. Il dolore insostenibile mise fine ai suoi giorni e la donna, senza attendere, si tolse la vita. Il vento, dopo avere avvolto la sua preda in un turbine di folle gelosia, dissolse così questa sua prole.
Ma anche la figlia di Cadmo e Armonia un giorno ebbe lo stesso delirante pensiero di Temisto. Secondo il mitografo Apollodoro, la prima moglie di Atamante fu Nefele e Ino la seconda. Ino non si sentiva al sicuro, percepiva l’ombra di Nefele che, così come fanno le nuvole, oscurava quel sole che avrebbe dovuto splendere indisturbato sull’amore che la legava ad Atamante. Di nuovo l’ossessione si riversò sui figli dell’avversaria e Ino preparò un inganno i cui effetti si sarebbero manifestati trascorso un tempo ben preciso. Avvicinandosi il periodo della semina, fece abbrustolire tutte le sementi in modo che i contadini imbottissero la terra di semi sterili. Il mancato raccolto avrebbe portato la città alla fame e la rovina in poco tempo avrebbe messo la parola fine al popolo di Atamante. Proprio qui la sua vendetta si sarebbe realizzata: com'era usanza in situazioni del genere, Ino sapeva che il re avrebbe inviato un messaggero al santuario di Delfi per interrogare Apollo su cosa dovesse fare per salvare la città. L’astuta donna allora avrebbe corrotto il corriere affinché riferisse ad Atamante un falso responso: doveva dire al re che la carestia sarebbe terminata soltanto se avesse sacrificato a Zeus il figlio maschio avuto con Nefele, ovvero Frisso. Le cose andarono esattamente così e Ino ebbe la soddisfazione di vedere Frisso incamminarsi verso l’altare dove sarebbe stato immolato per i propri cittadini. Ma, come successe a Temisto, anche il piano di Ino era destinato a fallire; il messaggero che aveva mentito non riuscì resistere all’orribile visione e, prima che il ragazzo venisse ammazzato, confidò al re l’inganno. Atamante stentò a credere a un simile affronto e lo sdegno fu così grande che ordinò a Frisso di togliere lui stesso la vita alla traditrice; non solo: che ne uccidesse anche il figlio Melicerte. Ma, come il vento arriva inaspettato e sollevando una nuvola di polvere blocca la vista e porta con sé ciò che ha nascosto, così Dioniso, il dio ebbro, apparve improvvisamente e rapì Ino, alla quale era legato da affetto materno; egli infatti, frutto dell’unione di Zeus con la mortale Semele e privato della madre prima della nascita, fu affidato dal padre proprio a Ino e Atamante. Cosa questa che Era, la consorte ufficiale di Zeus, non gradì e da quel momento, ebbe in odio Atamante e tutta la sua stirpe. La dea si vendicò infatti dell’oltraggio rendendo pazzo il re che aveva allevato Dioniso, e Atamante, incosciente, assassinò uno dei suoi figli: Learco.
Allo stesso modo di Temisto, Ino non sopportò il dolore e, prima che Melicerte fosse ucciso da Frisso, lo prese con sé trascinandolo nel suo disperato gesto di togliersi la vita. Ino si gettò in mare da un alto dirupo e, grazie a un nuovo intervento di Dioniso, si trasformò in una divinità, Leucotea che in greco significa la dea bianca, da leukos che significa bianco e thea che significa dea. Il vento come se giocasse a calciare delle foglie accartocciate per poi sbarazzarsene indifferente, dissolse così quest’altra sua prole.
Dei sei fanciulli di Atamante ne erano rimasti in vita solo due: Frisso ed Elle, quelli generati da Nefele. A questo punto, il mito si sdoppia e di quello che accadde vengono date due versioni. Igino, il mitografo che abbiamo seguito finora, ci racconta che Dioniso si impossessò dei due fratelli facendo perdere loro il senno e smarrendoli nei boschi. Egli era il dio della vite, dalla cui coltivazione si traeva il vino capace di sciogliere la mente e inibire la ragione. I suoi seguaci erano i satiri e le mènadi che, in preda al delirio e girovagando per i monti, si abbandonavano a rituali sfrenati in onore del dio. In Apollodoro invece, Frisso sta effettivamente per essere sacrificato poiché manca la variante del messaggero che svela la verità ad Atamante. In entrambe le versioni comunque, entra in gioco Nefele, la madre dei due fanciulli, che li trae in salvo – dalla follia nel primo caso e dalla morte nel secondo – e lo fa servendosi della stessa risorsa, che ora andiamo a conoscere.
Abbandoniamo per un attimo i nostri protagonisti e andiamo indietro nel tempo a incontrare l’ariete dal vello d’oro. Igino è l’unico dei mitografi che ci narra la sua nascita e val la pena dunque ascoltare direttamente le sue parole.
Teofane, figlia di Bisante, era una fanciulla bellissima. Dato che molti pretendenti la chiedevano al padre, Nettuno la prese e la trasportò sull’isola di Crumissa. Quando i pretendenti seppero che si trovava lì, allestirono una nave e si diressero verso Crumissa. Per sviarli, Nettuno trasformò Teofane in una bellissima pecora, se stesso in ariete e i cittadini di Crumissa in gregge. I pretendenti sbarcarono e, non trovando alcun uomo, iniziarono a macellare le pecore per cibarsene. Quando Nettuno vide che gli uomini da lui trasformati in pecore venivano massacrati, mutò in lupi i pretendenti; egli stesso poi, in forma di ariete, giacque con Teofane. Da quell’amplesso nacque l’ariete dal vello d’oro che trasportò Frisso in Colchide…
(Igino, Favole, 188)
Proprio così. La risorsa di cui si servì Nefele per mettere in salvo i propri figli fu l’ariete, figlio del dio degli abissi marini e di una principessa il cui nome significa manifestazione della divinità, da theos, dio e phanein, apparire. Secondo la versione di Igino, in cui i due fratelli erano una sorta di fauni privi di ogni vena razionale, la madre accorse in loro aiuto portando con sé l’ariete dal vello d’oro e, messili in groppa, ordinò di dirigersi da Eeta, figlio del Sole e re della lontanissima Colchide, una terra dell’Asia affacciata sul Mar Nero e coronata dall’imponente catena del Caucaso.
Nel racconto di Apollodoro invece Nefele avvolse Frisso nella candida densità propria delle nuvole e lo sottrasse così in extremis al rito sacrificale cui si stava sottoponendo. Anche in questo contesto, la madre adagiò lui e la sorella sull’ariete affinché li trasportasse il più lontano possibile dalla Beozia, nella Colchide appunto, uno dei paesi più lontani allora conosciuti.
Di nuovo l’elemento etereo fa la sua comparsa perché il vento sarà l’accompagnatore invisibile del lungo viaggio di Frisso ed Elle. Il tragitto infatti non avvenne per terra come ci si aspetterebbe, bensì in volo: l’ariete era speciale, oltre all’oro del suo manto, possedeva il dono di poter volare.
Tuttavia soltanto Frisso vide la città di Eeta; mentre l’ariete sorvolava il mare sorreggendo i due giovani, Elle perse per un attimo la presa e precipitò. Quel tratto di mare da allora ebbe il suo nome: Ellesponto, ossia il mare di Elle (mare in greco si dice pontos). E così il vento mentre si riversava immenso sul volto, fra i capelli, nei polmoni e nelle orecchie dei fratelli, accompagnò Elle in caduta libera verso una dimora liquida, profonda, eterna.
(…) l'Ariete,
(…) solcando i mari di cristallo li riverberò dell'oro del vello
e Frisso privato della sorella per volere del destino,
trasportò sul suo dorso alle rive del Fasi e alla Colchide.
(Manilio, Astronomica, IV, 514-517)
Finalmente atterrato in Colchide, Frisso eseguì quanto Nefele gli aveva ingiunto: nel bosco sacro ad Ares, sacrificò l’ariete, lo spogliò del suo manto unico e portò quest’ultimo nel tempio del dio della guerra, dove un drago sarebbe stato il suo custode. Almeno fino al giorno in cui un uomo di nome Giasone, insieme a cinquanta eroi greci, non approdò in Colchide dalla lontana Tessaglia e se ne appropriò. Ma questa è un’altra storia…
Il mitografo Igino infine ci dice che Nefele per onorare l’ariete, ne pose l’immagine in cielo: solo quella dell’ariete però, perché la sua pelle lucente doveva rimanere nel tempio di Ares, motivo per cui la costellazione non è brillante. Il vento, dopo aver dissolto tanta sua prole, soffiò dunque lontano quell’ultimo figlio di nome Frisso, ponendo così fine alle sorti funeste.
Perché ho raccontato questa storia nei minimi dettagli, anche considerando le vicissitudini estranee all’ariete? Perché per comprendere appieno il significato che l’animale rivestì fin dai tempi più antichi, occorre fare un discorso più ampio, non limitato alla sua singola azione. La sua presenza infatti si inserisce in un contesto molto singolare; innanzitutto è un contesto familiare, e poi è un contesto dominato dalla distruzione, dalla violenza, dalla tragedia: vi è una famiglia i cui membri sono preda degli istinti più efferati, vi sono delitti dal sapore perverso della faida e dei suicidi a sorpresa di madri disposte a uccidere la prole altrui ma incapaci di immaginare un’atrocità del genere rivolta alla propria. E, oggetto comune a tutte queste storie di follia, sono appunto le vittime: sempre e comunque i figli.
Uno dei temi dominanti del mito è difatti il sacrificio del figlio: assassinato o immolato, è colui che pone fine all’odio – sia provato, come nel caso delle due madri, che scatenato, come nel caso della carestia abbattutasi sulla città di Atamante. E la fine dell’odio avviene in un caso attraverso l’adempimento della vendetta, nell’altro attraverso l’espiazione che un sacrificio comporta. E, fra tutti i sacrifici, quello del figlio è, senza bisogno di spiegazioni, il più forte: è il sacrificio assoluto. Di questo sacrificio è piena la storia remota dell’umanità, sia in ambito pagano che non. Nel mondo greco, solo per citare qualche esempio, ricordiamo Ifigenia, immolata dal padre Agamennone per consentire agli eserciti greci di poter partire alla volta di Troia; e poi Persefone, la figlia della dea delle messi Demetra, condannata dal padre Zeus a divenire la sovrana degli inferi per compiacere al desiderio di Ade; e ancora i figli di Medea, la moglie di Giasone la quale, abbandonata dal marito per un’altra donna, si vendicò uccidendo i due fanciulli avuti da lui. E l’elenco sarebbe ancora lungo. In contesto biblico invece, sappiamo di Isacco sul punto di essere sacrificato a Dio dal padre Abramo, e via via fino a culminare col sacrificio del figlio stesso del Creatore, attraverso la crocifissione di Cristo. Ebbene, il figlio innocente che paga con la vita le colpe di altri o l’indulgenza divina è stato allegorizzato nell’antichità proprio con l’ariete che, secoli dopo con la venuta di Cristo, ritroviamo sotto forma di agnello. Nella vicenda di Isacco per esempio, quando Dio ferma la mano di Abramo sul punto di tagliare la gola al figlio, gli fa apparire in un cespuglio poco distante un ariete affinché assolva all’immolazione al posto di Isacco. L’animale diviene così veicolo di salvezza, di redenzione.
E in una sceneggiatura metaforica analoga a quella biblica, accade la stessa cosa nel mito greco dell’ariete dal vello d’oro.
In questo quadro sciagurato e luttuoso, tutto sembrerebbe possibile fuorché un messaggio di salvezza. E invece il vero colpo di scena sta proprio in questa possibilità, che alla fine si realizza. Per accorgersene però bisogna saperla riconoscere in alcuni episodi che accadono lungo tutta la vicenda.
Innanzitutto la trasformazione di Ino in dea è simbolo del passaggio dalla condizione di mortale a quella di immortale attraverso la morte. Non casuale inoltre è il mezzo in cui tale trasformazione avviene: l’acqua. Ino diventa dea nel momento in cui passa dall’elemento aria all’elemento acqua che è per definizione l’elemento di purificazione, di generazione e rigenerazione. E sempre restando in tema di acqua, la morte di Elle non ha affatto una connotazione negativa come si sarebbe portati a pensare. Il contatto con l’acqua da parte della bambina è in questo caso metafora del passaggio all’età adulta, si inserisce cioè in un contesto di iniziazione; il cielo consegnerà al mare una bambina che quest’ultimo trasformerà in donna. Dioniso poi sopraggiunge come salvatore, sia quando rapisce Ino per proteggerla dal colpo mortale di Frisso, sia instillando nei fratelli il seme di quella follia di cui lui è esponente massimo; si tratta però di una pazzia salvifica perché così facendo, li sottrae alla morte cui, almeno Frisso, era sicuramente destinato.
E infine ecco entrare in scena l’ariete d’oro, il quale interviene esclusivamente per salvare; il suo ruolo è chiaro, così chiaro da far pensare che la salvezza fosse la sua unica funzione e missione. L’ariete era dunque la forma arcaica pagana del futuro salvatore cristiano. Era l’animale della salvezza che i cristiani avrebbero identificato con l’agnello, un cambio di soggetti che è evidentemente solo apparente. E’ indubbia un’origine comune al significato dei due animali, dei quali l’agnello altro non è che il figlio dell’ariete.
E il parallelismo del mito greco con la tradizione ebraico-cristiana non finisce qui, perché si completa con la morte dell’animale: Frisso sacrificherà ad Ares l’ariete esattamente come Abramo lo sacrificherà a Dio, e infine Dio stesso sacrificherà il suo unico figlio al quale si è rivolto chiamandolo agnello.
Il mito di Frisso ed Elle si ritrova raffigurato principalmente sulla ceramica greca. Al IV secolo a.C. (circa 350-340 a.C.) appartiene il vaso a figure rosse di tipo nestoris proveniente dall’antica Lucania e la cui interpretazione della scena è duplice: potremmo trovarci o in Beozia nel momento in cui Frisso sta per essere sacrificato, oppure già in Colchide quando ad essere immolato è l’ariete.
Particolare della nestoris a figure rosse attribuita al Pittore di Choephoroi (Harvard Art Museums, Cambridge, ca. 350 - 340 a.C).
Immagine: www.theoi.com
Nel primo caso, a sinistra vediamo Atamante vicino all’altare in attesa del figlio, il quale sta per essere salvato dall’ariete che lo accompagna. Dietro di lui Elle e una guardia del re. Nel secondo caso – a mio avviso il più probabile – Frisso sta accostando l’ariete all’altare dove li attende il re Eeta. La ragazza alle spalle di Frisso sarebbe Calciope, la figlia del re dei Colchi che quest’ultimo diede in moglie a Frisso. A seguire, sempre una guardia del re. Il vaso si trova in America presso gli Harvard University Art Museums di Cambridge nel Massachusetts ed è stato attribuito al Pittore di Choephoroi.
Al Museo Nazionale di Atene invece è conservato un bel vaso che raffigura l’ariete dal vello d’oro mentre vola verso la Colchide trasportando Frisso.
elike attica a figure rosse del Pittore di Frisso raffigurante il giovane salvato dall'ariete Crisomallo, il cui nome significa lana dorata, dal greco chrysòs, oro, e mallòs, lana (Museo Archeologico Nazionale di Atene, ca. 450 - 400 a.C).
Immagine: www.theoi.com
Elle è evidentemente già caduta in mare, mentre il fratello si sostiene aggrappandosi alle corna e al manto dorato dell’animale. Anche questo vaso, tecnicamente chiamato pelike, è a figure rosse. Proviene dall’Attica ed è di un secolo più antico del precedente (circa 450-400 a.C.). Del pittore che lo ha dipinto non si è trovata altra ceramica, pertanto lo si conosce come il Pittore di Frisso.
Al 1690 risale invece la tavola uranografica di Hevelius dedicata alla costellazione (a inizio pagina).