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PEGASO
Pegasus, Pegasi
Peg
La costellazione di Pegaso nell'Uranographia di Hevelius (1690).
Immagine: http://www.atlascoelestis.com
Al nome di Pegaso, la mente va all’immagine di uno splendido cavallo alato che corre a briglia sciolta per praterie fatte di cielo. Eppure in origine Pegaso non possedeva le ali. Una delle prime descrizioni della costellazione risalente all’astronomo Eudosso (V-IV secolo a.C.), cui si sono riferiti in seguito gli astronomi Arato (IV-III secolo a.C.) ed Eratostene (III-II secolo a.C.), non accenna infatti a questo particolare che appartiene invece a una tradizione tarda. All’inizio la costellazione non si chiamava nemmeno Pegaso, ma semplicemente Cavallo, nome che si è tramandato fino all’era post Christum, come testimonia il compendio De Astronomia di Igino vissuto nel I secolo d.C. Chi battezzò la costellazione col nome attuale fu l’astronomo egizio Claudio Tolomeo nella sua magistrale opera Almagesto del 150 d.C., consolidando così definitivamente quella tradizione che si era venuta progressivamente affermando sul destriero. Dopotutto il cavallo della costellazione era sempre stato Pegaso, sia che si trattasse della versione con le ali che di quella senza, tanto valeva dunque farlo risplendere col suo nome.
Anche quando le ali non erano il suo attributo distintivo, Pegaso fu sin da subito un cavallo speciale e grandiosa sarebbe stata la sua storia, poiché visse al fianco di due eroi del calibro di Perseo e di Bellerofonte. Ma partiamo dall’inizio.
La sua discendenza innanzitutto fu straordinaria: i suoi procreatori infatti non furono cavalli, ma l'animale nacque dall’unione di un dio con una gorgone. Poseidone, potente sul mare era suo padre, mentre Medusa dai terribili occhi era la madre. Per via paterna dunque Pegaso era un cavallo intimamente legato all’acqua, ma in realtà lo era anche per via materna, poiché Medusa era una delle tre figlie di Forco e Ceti, divinità marine dei primordi. Le sorelle erano note col nome di Gorgoni che in greco significa le terribili e delle tre, solo Medusa era mortale. Prima di diventare un mostro, si diceva che Medusa fosse stata una donna bellissima e che il suo vanto fossero i capelli. Poseidone se ne invaghì ma commise l’errore di possederla nel tempio di Atena, la vergine guerriera figlia di Zeus. La dea punì l’oltraggio trasformando l’innocente in una creatura raccapricciante e oltraggiò la sua chioma facendola diventare un groviglio di serpi agitate. Rese infine il suo sguardo fatale a chiunque lo incrociasse, poiché all’istante ci si trovava mutati in pietra. Abbandonata ed evitata da tutti, Medusa scontava nel silenzio e nella rabbia la sua pena. Ma nel grembo ella portava il figlio di Poseidone o meglio i figli. Due erano le creature concepite col dio: Pegaso e Crisaore, di cui si sa soltanto che significa colui che ha la spada d’oro – da crysus oro e aor, arcaico nome greco per spada – e che sarebbe stato il padre di quel Gerione che Eracle uccise nella sua decima fatica.
Non sappiamo quali fossero le sembianze di Crisaore, ma sappiamo invece quali erano quelle di Pegaso, ovvero era un cavallo. Ha sicuramente dell’incredibile, per non dire dell’assurdo, che due esseri acquatici e tanto diversi fra loro, possano dare alla luce un cavallo. Eppure l’evento non suona così strano se si conoscono alcuni episodi della vita di Poseidone. Come Pegaso era profondamente legato all’acqua, così Poseidone era fortemente connesso alla figura del cavallo. Molto tempo prima infatti il dio, per impossessarsi della dea dei campi Demetra che, per sfuggire al suo corteggiamento aveva assunto le sembianze di una giumenta, si trasformò in cavallo.
Al tempo della contesa per il predominio sull’Attica invece, venne a gara con Atena e creò il primo cavallo in terra greca battendo il suolo roccioso col tridente. Vinse però la sfida Atena il cui dono per quella regione fu l’ulivo che venne preferito al cavallo di Poseidone. Per tutti questo motivi, il signore del mare aveva fatto del cavallo il suo animale sacro. Ed ecco allora che stupisce meno sapere che Pegaso si è originato da una coppia così lontana per fisionomia.
Se il concepimento del cavallo avvenne nel segno della passione, la sua nascita avvenne invece sotto quello della spada. Medusa infatti lo diede alla luce prematuramente, quando una lama affilata scivolò decisa lungo la sua gola, uccidendola. Era la lama della falce di Hermes, impugnata da Perseo, l’eroe argivo figlio di Zeus che il malvagio re di Serifo aveva inviato a un’impresa impossibile: prendere la testa della Gorgone. La sua speranza era di sbarazzarsi per sempre di lui e non dover così rispettare il patto di liberarne la madre Danae, fatta prigioniera.
Quando Perseo tagliò la testa di lei via dal collo
balzò fuori Crisaore grande e il cavallo Pegaso,
e questa fu la causa del loro nome, che l’uno presso le sorgenti d’Oceano
nacque e l’altro un’aurea spada aveva nelle mani.
(Esiodo, Teogonia, 280-283)
Proprio così: nel nome, Pegaso portava le proprie origini poiché pege in greco significa sorgente; ed era nato là dove anche Oceano nasceva, là dove fino ad allora aveva dimorato Medusa. Strappato al grembo materno, Pegaso cominciò a cavalcare per le terre greche, qualche volta mostrandosi anche agli uomini i quali, alla vista delle sue ali, restavano ammaliati da una simile meraviglia; ma catturarlo era impossibile, lo si poteva solo ammirare per il breve attimo del suo passaggio nel caso si avesse la fortuna di capitare sullo stesso percorso. Pegaso giunse in Beozia, la terra da cui si innalza il Monte Elicona, sacro alle Muse. Proprio lì vi è una fonte, Ippocrene, che significa fontana del cavallo, da ippos cavallo e krene fontana.
A circa venti stadi sopra il bosco [dell’Elicona] c’è la fontana detta “del Cavallo” (Ippocrene): si racconta che scaturì quando il cavallo di Bellerofonte sfiorò il suolo con lo zoccolo.
(Pausania, Viaggio in Grecia, 9.31.3)
Ma anche a Corinto il potere di Pegaso sull’acqua compì il prodigio: un’altra volta il suo zoccolo batté il terreno e acqua cristallina cominciò a zampillare. La fontana, il cui nome è Pirene, esiste ancora oggi e la leggenda vuole che vi si recassero i poeti perché bevendo alla sorgente si riceveva l’ispirazione. Dopo la nascita e le opere miracolose, il mito di Pegaso segue due tradizioni diverse. L’una vuole che accompagnasse l’eroe Perseo nel suo viaggio di ritorno verso Serifo e che, proprio durante questa cavalcata celeste, passasse sopra la terra d’Etiopia. Lì una giovane principessa era stata designata come vittima sacrificale per una creatura terribile che Poseidone aveva inviato lungo il litorale. La giovane era Andromeda, la cui costellazione condivide una stella con quella dedicata a Pegaso: Andromeda era il sacrificio che Poseidone pretendeva per placare la sua ira. La regina d’Etiopia, Cassiopea, madre della ragazza, aveva infatti osato proclamarsi più bella delle Nereidi e le aveva sfidate a una gara di bellezza, sicura della vittoria. Ma così facendo aveva peccato di hybris, per i Greci la colpa più grave nei confronti degli dèi di cui un uomo può macchiarsi. Hybris è tracotanza, il voler raggiungere gli dèi finanche a superarli. L’uomo che peccava di hybris suscitava l’ira divina e solo attraverso un sacrificio si poteva sperare di spegnerla. Fu così che Cefeo, il re e padre di Andromeda, apprese da un oracolo che Poseidone si sarebbe placato solo se la figlia fosse stata immolata alla funesta creatura, conosciuta col nome di Ceto. I morti fatti da Ceto erano troppi per sottrarsi alla richiesta e così, con la disperazione nel cuore, Cefeo fece incatenare la figlia a uno sperone roccioso poco distante dalla riva e tormentato dai flutti. Sulla spiaggia, Cefeo e Cassiopea attorniati da una piccola folla attendevano che Ceto emergesse dalle onde e con un balzo si avventasse sulla ragazza sbranandola. A sorpresa invece uscì dalle nubi, in un galoppo alato, Pegaso, splendido e veloce, devoto al suo cavaliere Perseo, uccisore di Medusa. Alla vista di Andromeda l’eroe sulle prime la scambiò per una statua, tanto stava immobile per il terrore e tanto era bella. Solo avvicinandosi, dai capelli che ondeggiavano nel vento, capì che era di carne. Era troppo spaventata e infreddolita per rispondere a Perseo che concitato le chiedeva chi era e perché era incatenata, ma alla fine con gli occhi pieni di lacrime rivelò il suo nome e il destino cui Poseidone l’aveva condannata. Anche senza esprimerlo a parole, tutto in lei implorava la salvezza e così Perseo, appreso che sulla riva vi erano i genitori, con una scrollata di briglie spronò Pegaso e volò da loro.
"Per piangere potrete avere tutto il tempo che vorrete;
per portare soccorso, ci sono pochi attimi.
Se io chiedessi la sua mano, io, Perseo, figlio di Giove
e di colei che quand’era imprigionata fu ingravidata da Giove
con oro fecondo, Perseo vincitore della Gorgone dalla chioma di serpi,
che oso andarmene per l’aria del cielo battendo le ali,
non sarei forse preferito come genero a chiunque altro?
A così grandi doti, sol che mi assistano gli dèi, cercherò comunque di aggiungere un merito.
Facciamo un patto: che sia mia se la salvo col mio valore!".
(Ovidio, Metamorfosi, IV, 695-703)
Il re e la regina accolsero come un segno di Zeus le parole del giovane e lo supplicarono di salvare la figlia. Proprio mentre Perseo ritornava da Andromeda, apparve Ceto, enorme, rabbioso, affamato. Lo separavano pochi metri dalla roccia maledetta ma, prima che potesse scagliarsi sulla principessa, Perseo lo raggiunse e intraprese un combattimento all’ultimo sangue, finché estratta la testa della Gorgone dalla bisaccia dove la teneva chiusa, usando lo scudo come uno specchio, lo rivolse verso gli occhi di Ceto. In pochi attimi la creatura si indurì in un gigante di pietra contro cui le onde si infrangevano ritmicamente. Perseo scese verso Andromeda e dopo averle liberato i polsi dalle catene, la prese con sé e la riportò ai genitori sulle ali di Pegaso. Il patto fu mantenuto e le nozze celebrate; Zeus poi non volle che questa storia andasse perduta e così ecco i protagonisti trasformati in stelle vicino alle costellazioni di Cefeo e Cassiopea ma lontani da quella di Ceto, che noi conosciamo come la Balena:
Con travolgente galoppo, tentando di raggiungere il Delfino, accelera
il Cavallo, con una stella fulgente che gl’illumina il petto,
ed è concluso in Andromeda, che Perseo armato
libera a sé e congiunge.
(Manilio, Astronomica, I, 348-351)
La seconda tradizione lega invece Pegaso a Bellerofonte, figlio di Glauco e nipote di Sisifo re della città di Efira, l’odierna Corinto.
V’è una città, Efira, nella vallata d’Argo che nutre cavalli;
qui visse Sisifo, ch’era il più astuto degli uomini,
Sisifo, figlio d’Eolo; e un figlio generò, Glauco; e Glauco
generò Bellerofonte perfetto,
a cui bellezza gli dèi e ardore invidiabile diedero.
(Omero, Iliade, VI, 153-157)
Bellerofonte è noto per aver ucciso la Chimera, combattimento fra l’altro che vinse proprio in groppa al destriero nato da Medusa; ma prima di compiere l’impresa che lo avrebbe consacrato al mondo degli eroi, dovette conquistarsi la mansuetudine dell’animale, ribelle e impetuoso come mare in burrasca, cosa che senza l’aiuto divino non gli sarebbe stata possibile. Si dice che Bellerofonte fu il primo a domare il cavallo alato grazie al morso d’oro che Atena gli fece trovare accanto dopo essergli apparsa in sogno.
Ecco ricevi la malia del cavallo,
e mostrala al Padre tuo che doma,
sacrificando un toro tutto bianco”.
Così gli parve nel sonno
che parlasse la Vergine
nel livido segno entro l’ombra folta,
e subito balzò diritto in piedi
e il prodigio era presso e l’afferrò,
poi ritrovò felice
l’indovino della sua terra,
il figlio di Cerano, cui mostrò
tutto l’esito dei fatti,
come si coricò presso l’ara della Dea
tutta la notte dopo il suo oracolo
e come la figlia di Zeus del fulmine
gli diede l’oro che doma la voglia.
(Pindaro, Olimpiche, XIII, 90-105)
Il padre cui Bellerofonte doveva sacrificare il toro bianco era Poseidone e il motivo per cui viene indicato come padre del ragazzo è da ricercarsi nell’etimologia del nome Glauco – il tradizionale padre di Bellerofonte – che significa semplicemente il mare azzurro, epiteto che fa pensare a un dio del mare e che dunque viene a confondersi con la figura di Poseidone. Al verso 90 invece il giovane è detto figlio di Eolo ma è da interpretarsi nel senso di discendente della stirpe di Eolo, dato che il padre di Bellerofonte è Glauco, il cui avo era Eolo. Bellerofonte eseguì quanto Atena gli aveva chiesto; poi le innalzò un altare come gli aveva intimato l’indovino. Anche dopo la leggenda, in tempi storici, la figlia di Zeus ebbe un santuario che commemorava proprio l’episodio in cui, grazie a lei, Pegaso poté essere domato. Si trovava a Corinto patria di Bellerofonte e ne abbiamo notizia attraverso la preziosa opera di Pausania, il quale segue una tradizione in cui è Atena stessa che mette il morso al cavallo e lo dona in seguito all’eroe. Tornando invece al risveglio di Bellerofonte, ecco come cavallo e cavaliere sigillarono i loro cuori:
Allora il forte, Bellerofonte,
tese il veleno mite intorno al muso,
prese il cavallo alato
e salì bronzeo
e subito gli suscitò il passo delle armi,
e con lui un giorno batté l’esercito
delle Amazzoni arciere
scendendo i golfi cavi del freddo cielo,
e spense i Solimi
e la Chimera che spirava fuoco.
(Pindaro, Olimpiche, XIII, 114-123)
La Chimera, una creatura terribile, primordiale, incrocio di quattro animali: aveva la forza del leone, l’astuzia del serpente, la potenza della capra e la distruttività del drago.
Echidna partorì Chimera che spira invincibile fuoco,
terribile e grande, veloce e forte;
tre teste aveva: l’una di leone dagli occhi ardenti,
l’altra di capra, di serpe la terza, di drago possente;
davanti leone, drago di dietro, nel mezzo era capra,
spirando tremendo ardore di fiamme brucianti;
costei l’uccisero Pegaso e il prode Bellerofonte.
(Esiodo, Teogonia, 319-325)
Bellerofonte fu mandato contro Chimera come Perseo fu mandato contro Medusa; Perseo per sottrarre la madre alla schiavitù, Bellerofonte per scontare un peccato che in realtà non aveva mai commesso. Quando ancora viveva ad Efira, la regina lo accusò dinanzi al re di averla sedotta per vendicarsi invece del rifiuto che il giovane le aveva opposto. Antea si chiamava la regina, mentre Preto era il nome del sovrano di Argo. Il re, sdegnato e tuttavia senza il coraggio di condannarlo a morte personalmente – stimava la sua discendenza e lo stesso Bellerofonte che sempre si era mostrato saggio e magnanimo – decise di inviarlo in Licia, in Asia Minore. Là regnava Iobate, padre di Antea. Il giorno della partenza, Preto diede al ragazzo due tavolette d’argilla su cui aveva inciso un messaggio per il sovrano licio. Con parole di ghiaccio raccomandava il suocero di fare in modo che Bellerofonte morisse.
Ma quando giunse in Licia e alla corrente dello Xanto,
di cuore l’onorò il re della vasta Licia,
per nove giorni gli fece accoglienza, uccise nove buoi.
Poi, quando apparve la decima aurora rosee dita,
lo interrogò, e chiese il segno a vedere,
quello che gli portava da parte del genero Preto.
E, quando ebbe avuto il segno funesto del genero,
per prima cosa volle che la Chimera invincibile uccidesse.
(Omero, Iliade, VI, 172-179)
Non si sottrasse all’impresa Bellerofonte, nonostante sapesse che significava morte sicura. Con animo valoroso salì su Pegaso e insieme si spinsero in alto, fin quando cordoli di nubi replicati all’infinito, furono per gli zoccoli di Pegaso suolo che nella corsa cedeva dissolvendosi un po’. Trovò l’animale in una piana sassosa, senza alberi; solo sparuti moncherini sparsi qua e là dicevano che un tempo ce n'erano stati, un tempo prima del passaggio di Chimera e della sua vampa di fuoco. Bellerofonte la osservò abbassandosi in volo ma senza toccare terra e si tenne ancora a debita distanza per studiare il suo avversario.
Questa era stirpe divina, non d’uomini,
leone davanti, dietro serpente, capra nel mezzo,
soffiava un fiato terribile di fiamma avvampante.
(Omero, Iliade, VI, 180-182)
Appena la belva li vide, si rizzò sulle zampe posteriori spingendo fuoco dalla gola e rabbia dalle narici. L’aria si arroventò e il paesaggio iniziò a tremolare per il calore. Bellerofonte tentava disperatamente di domare Pegaso imbizzarrito e appena poté cercò di farsi un varco in quell’inferno, finché riuscì a puntare la sua lancia là dove batteva il cuore di Chimera: vibrando un colpo potente, la centrò in pieno. Un urlo stridulo salì dallo stomaco della belva mentre le fiamme le si spensero in gola, finché Chimera si accasciò al suolo priva di vita.
Altre imprese Bellerofonte dovette affrontare per volere di Iobate: contro i Solimi, popolo crudele che regnava sulla Licia prima di Iobate e contro le Amazzoni nel Caucaso gelido. Da tutte egli uscì vittorioso.
[Iobate] conobbe allora ch’era la nobile stirpe d’un dio,
e lo trattenne con sé, gli diede una sua figlia,
mezzo l’onore gli diede di tutto quanto il regno
e i Lici tagliarono un campo per lui, migliore degli altri,
bello d’alberata e arativo, perché v’abitasse.
(Omero, Iliade, VI, 191-195)
Bellerofonte divenne un eroe, ebbe in sposa la figlia di Iobate la quale gli diede tre femmine e ricevette sempre molti onori dai popoli della Grecia. Ma venne il giorno in cui anch’egli come Cassiopea peccò di hybris. Avere Pegaso era un privilegio unico, con lui si avventurava nelle zone più alte del cielo; le cime delle montagne stavano sotto i suoi piedi e sul dorso alato del cavallo di Poseidone, aveva visto stelle visibili solo da altezze dove l'aria è più rarefatta: ora voleva vedere gli dèi. Salire su fino all’Olimpo glorioso, conoscere il volto di Zeus, di Demetra, di Atena e di Afrodite, di Hermes, di Apollo, di tutti i dodici immortali che regolavano la vita degli uomini. E una volta lassù, toccare l’immortalità. Ma tutto questo era troppo, un uomo non doveva permettersi di osare tanto. Bellerofonte era perso nell’ebbrezza del suo sogno quando, in una delle sue tante cavalcate celesti, lanciò Pegaso in un galoppo ardito verso l’alto. Assaporava la vertigine di risalire le nuvole squarciandole una dopo l’altra. Troppo per un uomo, ma troppo anche per un eroe: troppo per chi è di stirpe mortale.
Chi guarda avido le cime,
è troppo breve per giungere
dove gli Dei seggono
su troni di bronzo.
Pegaso alato rovesciò il suo signore,
Bellerofonte, quando volle condurlo
alle case del cielo,
nel concilio di Zeus.
La gioia non giusta ha compimento amaro.
(Pindaro, Istmiche, VII, 74-82)
Pegaso dunque si rifiutò di accondiscendere al suo padrone e lo disarcionò. Bellerofonte precipitò, fu un lungo volo all’ingiù avvitandosi e agitandosi nel vento che lo pressava sul petto e gli sibilava nelle orecchie. I numi tuttavia gli risparmiarono la vita e lo fecero cadere in una pianura della Cilicia chiamata Alea che significa degli errabondi, castigo più grande della morte poiché lo costringeva a un rimorso eterno.
Ma quando anch’egli fu in odio a tutti i numi,
allora errava, solo, per la pianura Alea,
consumandosi il cuore, fuggendo ormai d’uomini.
(Omero, Iliade, VI, 200-202)
Come Perseo, anche Bellerofonte aveva sconfitto una creatura mostruosa, ma a differenza di Perseo non conobbe l’eternità delle stelle.
Ammonisce Pegaso celeste
che gravò il cavaliere della terra,
Bellerofonte,
sempre a credere in quello che puoi credere,
e ciò che non è lecito sperare
evitarlo, compagno diseguale,
saperlo colpa.
(Orazio, Carmina, Il silenzio di Fillide, 4,11,26-32)
Quanto a Pegaso invece, Zeus lo volle nel firmamento, costellazione grande allacciata ad Andromeda sulla quale vegliano Perseo, Cassiopea e Cefeo.
Or quando screzieranno le stelle l’azzurro del cielo,
guarda: vedrai il petto del gorgoneo cavallo,
che si crede balzasse col crine cosparso di sangue
dalla testa recisa di Medusa incinta.
Esso, volando sopra le nubi e di sotto le stelle
aveva per terra il cielo e l’ali aveva per piedi.
Già le recenti briglie mordeva con la bocca ribelle,
quando la rapida unghia scavò la fonte aonia.
Or gode il cielo, dove prima s’alzava l’ali, e di quindici stelle risplende luminoso.
(Ovidio, Fasti, III, 449-458, 7 marzo)
L’iconografia dedicata a Pegaso è vastissima. Il cavallo alato ha ispirato artisti di ogni tempo; dal VI secolo a.C. ai giorni nostri, le opere si sono susseguite su un arco di tempo di 2500 anni e in tutte le forme dell’arte, dalla pittura alla scultura alla numismatica. Una delle rappresentazioni più antiche risale al 560 a.C. e si trova su una coppa attica a figure nere attribuita al pittore convenzionalmente chiamato di Heidelberg.
Coppa attica a figure nere attribuita al Pittore di Heidelberg. Bellerofonte a cavallo di Pegaso affronta la Chimera, la creatura dal triplice corpo di leone, capra e serpente (Louvre, ca. 560 - 550 a.C.).
Immagine: http://www.theoi.com
La coppa mostra il combattimento di Bellerofonte con la Chimera e, in accordo con lo stile arcaico della ceramica greca, la scena è fortemente geometrica: i due animali, rappresentati di profilo, sono posti l’uno di fronte all’altro come in uno specchio e ad avvalorare la specularità, vi è l’immagine del cavaliere cui si oppone la seconda testa di Chimera, quella di capra. Nonostante Pegaso si stia impennando e Chimera sferri l’attacco con una zampata, la raffigurazione rimane statica. Ciò che interessa alla pittura vascolare greca del VI secolo è la geometria, il dinamismo sarà prerogativa dello stile classico del secolo successivo. La coppa è detta Siana perché ricalca quelle della necropoli di Siana sull’isola di Rodi cui si rifecero i ceramisti attici del VI secolo a.C. ed è conservata al Louvre.
Della fine del VI secolo a.C., circa del 510 a.C., è invece la kylix attica a figure rosse custodita al Museum of Fine Arts di Boston. La kylix è una coppa che si usava nei simposi per bere il vino e si caratterizza per il corpo ampio e poco profondo sorretto da uno stelo piuttosto alto e da due piccole anse per reggerlo. La coppa che raffigura Pegaso è stata attribuita a un pittore che si chiamava Skythes.
Kylix attica a figure rosse attribuita a Skythes recante la raffigurazione di Pegaso (Museum of Fine Arts, Boston, ca. 510 a.C.).
Immagine: http://www.theoi.com
Trattandosi di un recipiente destinato al vino, oltre al cavallo sono stati dipinti anche dei satiri e Dioniso. All’interno invece chi terminava la rossa bevanda, si ritrovava di fronte all’enigmatica sfinge disegnata sul fondo.
Sempre al periodo arcaico della pittura vascolare, siamo attorno al 500 a.C., è la lekythos attribuita al pittore Diosphos, il quale ha raffigurato la nascita di Pegaso.
Lekythos attica a figure nere attribuita al Pittore Diosphos in cui si vede Perseo che vola via con testa di Medusa appena mozzata, mentre Pegaso spicca dal collo reciso (Metropolitan Museum of Art, New York, ca. 500 a.C.).
Immagine: http://www.metmuseum.org/art/collection/search/247488
Dettaglio della lekythos di Diosphos.
Immagine: https://www.studyblue.com/notes/note/n/bellerophon-25-45-labors-1-4/deck/10358130
Questo tipo di vaso era usato per contenere l’olio, sia come unguento per gli atleti che per condire gli alimenti ma il suo utilizzo si estendeva anche alle cerimonie funebri. La scena raffigura Pegaso che spicca il volo dal collo di Medusa sprizzante sangue. La gorgone è accasciata a terra e al di sopra vi è Perseo che grazie ai calzari alati di Hermes, può scappare volando. Nella mano sinistra l’eroe impugna il falcetto, sempre dono di Hermes, con cui ha appena ucciso Medusa, mentre appesa al braccio destro, a forma di mezzaluna, vi è la kibisis, la sacca dentro cui ha posto la testa per controllare il potere degli occhi. Del capo di Medusa si possono vedere i capelli serpentini sulla nuca che spunta dal sacco.
Questo dipinto è interessante perché è uno dei primi in cui, accanto alla tradizionale tecnica a figure nere, dove i personaggi sono di colore nero sullo sfondo rosso della ceramica, si preannuncia la successiva tecnica a figure rosse, quella cioè in cui i personaggi sono di colore rosso su sfondo nero. In questo caso Perseo e Pegaso seguono lo stile arcaico, ma Medusa essendo solo delineata e non colorata di nero, anticipa quello che sarà lo stile dei secoli dal V in poi.
Una bella immagine, potremmo dire angelica, di Pegaso e Bellerofonte si trova su una pelike attica a figure rosse del 440 a.C. attribuita al pittore di Barclay.
Pelike attica a figure rosse del Pittore di Barclay con Bellerofonte a cavallo di Pegaso nell'atto di affrontare Chimera (Louvre, ca. 440 a.C.).
Immagine: http://www.theoi.com
La pelike era un vaso da trasporto, simile all’anfora. Pegaso è al trotto e con le sue grandi ali nasconde quasi completamente Bellerofonte, di cui è visibile solo la testa. Il vaso è custodito al Dipartimento di Antichità Greche, Etrusche e Romane del Louvre.
Al 360-350 a.C., verso la fine del periodo classico, risale un cratere a campana a figure rosse proveniente dalla Puglia e conservatosi solo in frammenti.
Frammento di un cratere apulo a campana a figure rosse recante il disegno di Pegaso. La scena completa mostra Bellerofonte che, unico, riesce a mettere il morso a Pegaso mentre si sta abbeverando alla fontana di Pirene (Tampa Museum of Art, Tampa, ca. 360-350 a.C.).
Immagine: http://www.theoi.com
In uno di questi è visibile Pegaso nel momento in cui viene aggiogato da Perseo. Attorno al cavallo infatti è visibile una briglia e seguendola termina in una mano che altra non è se non quella di Bellerofonte. A confermare l’ipotesi, vi è una costruzione sotto gli zoccoli posteriori di Pegaso che rappresenta la fontana di Pirene, il luogo dove l’eroe ha ricevuto il morso da Atena e ha potuto così domare il cavallo alato. Il cratere si trova in Florida al Tampa Museum of Art.
Un altro bel cratere del IV secolo a.C., estremamente elegante, risalente al 320 a.C. circa, è quello apulo a volute custodito al Los Angeles County Museum of Art. Il vaso è attribuito al pittore della Patera e sul collo si può vedere una raffigurazione alquanto minuziosa di Pegaso.
Cratere a volute proveniente dalla Puglia e attribuito al Pittore della Patera (Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles, ca. 320 a.C.).
Immagine: archivio.
Dettaglio del cratere del Pittore della Patera. Sul collo vi è una dettagliata raffigurazione di Pegaso.
Immagine: archivio.
Spostandoci invece in ambito scultoreo, al Museo Archeologico Nazionale di Atene si trova un prezioso sarcofago in marmo proveniente da Megiste, una piccola isola fra l’antica Licia e Rodi, oggi chiamata Kastelorizo in greco o Meis in turco.
Sarcofago di Megiste con Bellerofonte che aggioga Pegaso mentre beve dalla fonte di Pirene (Museo Archeologico Nazionale, Atene, 150-180 d.C.).
Immagine: archivio
Dettaglio del sarcofago di Megiste con Bellerofonte e Pegaso.
Immagine: http://www.livius.org/pictures/greece/megiste/megiste-bellerophon-sarcophagus/
Per le ridotte dimensioni (90x45 cm), più che di un sarcofago si tratta di un ossario su un lato del quale è rappresentata a sinistra la coppia dei defunti, seguita al centro da Afrodite nell’atto di scrivere i loro nomi su uno scudo sorretto da un cupido, mentre all’estremità destra è scolpito Bellerofonte che tiene per le redini Pegaso che beve alla fonte Pirene. L’ossario è di epoca romana e risale al 150-180 d.C.
Rimanendo nella scultura ma con un salto temporale di ben quattordici secoli, possiamo ammirare la raffinata statuetta firmata da Benvenuto Cellini, scultore e orafo fiorentino, conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Statuetta in bronzo di Benvenuto Cellini con Bellerofonte che addomestica Pegaso (Kunsthistorisches Museum, Vienna, 1486).
Immagine: https://www.khm.at/en/
Mancavano sei anni alla scoperta dell’America, quando Cellini plasmò nel bronzo il suo Bellerofonte che doma Pegaso. La scena colpisce per la forza insita in ogni dettaglio dei corpi e per l’intenso dinamismo che sprigiona. Con tocco sapiente lo scultore ha saputo rendere la forza di Pegaso che si ribella al tentativo di Bellerofonte di aggiogarlo, e quella dell’eroe che con la mano sinistra gli afferra il muso, mentre con la destra è pronto a inserirgli il morso in bocca.
Nel 1635, in pieno stile barocco, anche il pittore Peter Paul Rubens si cimentò a dipingere Pegaso nella sua avventura con Bellerofonte contro la Chimera.
Il combattimento fra Bellerofonte a cavallo di Pegaso e la Chimera dipinto da Rubens (Musée Bonnat, 1635).
Si tratta di un piccolo quadro – solo 34 × 27,5 cm – custodito nel sud della Francia al Musée Bonnat di Bayonne. Nonostante le dimensioni ridotte, la scena è carica di drammaticità. La Chimera, qui visibile sotto forma di leone, assale inferocita i due aggressori. Pegaso appare quasi spaventato, ma Bellerofonte sta già trafiggendo il petto della belva con la sua lancia. Il colore dominante è l’arancione acuito dal rosso dell’abito dell'eroe a sottolineare come il combattimento si svolgesse nell’aria avvampata dal fuoco della Chimera.
Mezzo secolo più tardi, nel 1690, l’astronomo polacco Johannes Hevelius pubblicava il suo atlante stellare con la rappresentazione mitologica delle costellazioni. Ecco così la tavola uranografica dedicata a Pegaso (a inizio pagina). Come vuole la tradizione, il cavallo nel firmamento è rappresentato frontalmente e solo per metà.
Al Palazzo Sandi di Venezia, un edificio del XVI secolo, il pittore Giambattista Tiepolo affrescò nel 1723 il soffitto del piano nobile su commissione dell’avvocato Tommaso Sandi. Il capolavoro che ne uscì si intitola La forza dell’eloquenza, in riferimento alla professione del committente.
L'affresco di Giovanni Battista Tiepolo intitolato La forza dell'eloquenza dipinto sul soffitto di Palazzo Sandi a Venezia. In un particolare è raffigurato Pegaso montato da Bellerofonte intento a combattere la Chimera (Palazzo Sandi, Venezia, 1723).
Fra i soggetti raffigurati vi è anche uno splendido Pegaso che sostiene Bellerofonte nella sua impresa contro la Chimera. La prospettiva è quella dello spettatore che osserva la scena dal punto in cui si trova, ossia da terra.
Il Tiepolo dipinse ancora il cavallo alato nella volta del salone da ballo di Palazzo Labia sempre a Venezia, sua città natale.
Affresco di Giovanni Battista Tiepolo sul soffitto di Palazzo Labia a Venezia. Il dipinto appartiene al ciclo dedicato ad Antonio e Cleopatra e si intitola Bellerofonte su Pegaso va verso la Gloria e l'Eternità (Palazzo Labia, Venezia, 1747).
Era il 1747 e nel ciclo di affreschi dedicati alle Storie di Antonio e Cleopatra figura anche quello intitolato Bellerofonte su Pegaso va verso la Gloria e l'Eternità. Cavallo e cavaliere sono rappresentati in tutta la loro grandiosa apoteosi, sebbene in realtà come il mito ci insegna, soltanto Pegaso raggiungerà la Gloria e l’Eternità, perché di lì a poco Bellerofonte verrà disarcionato.
Nel XIX secolo in Inghilterra, un altro pittore di grande fama dedicò uno dei suoi numerosi capolavori al mito di Pegaso. Si tratta di Sir Edward Burne-Jones, artista che, pur appartenendo al periodo romantico della pittura, miscelò l’arte gotica con quella quattrocentesca dando così vita a uno stile personalissimo, fatto di ritmi lineari e di linee fluttuanti.
La nascita di Pegaso e Crisaore dal sangue di Medusa di Edward Burne-Jones. Il pittore inglese è uno dei pochissimi artisti a restituirci anche un immagine di Crisaore, il fratello di Pegaso sgorgato dal collo reciso di Medusa e di cui le fonti sopravvissute sono prive di dettagli (Southampton City Art Gallery, 1876-1878 ca.).
Alla Southampton Art Gallery dell’omonima città inglese, è conservato il dipinto intitolato La nascita di Pegaso e Crisaore dal sangue di Medusa, eseguito negli anni dal 1876 al 1878. In primo piano, di grandi proporzioni, si distingue Perseo che nella mano sinistra impugna la testa appena recisa di Medusa, guardando bene di volgerla dall’altra parte per non rimanere pietrificato. Nella mano destra tiene invece la spada con cui ha appena ucciso la Gorgone dal cui corpo accasciato si levano Crisaore, teso e con le mani incrociate dietro la nuca, e Pegaso, gigantesco e dallo spirito indomito. Accanto a ogni personaggio infine è possibile leggerne il nome.
Sul finire dell’Ottocento un altro artista inglese, famoso soprattutto come illustratore di libri per bambini, si cimentò nella raffigurazione di Pegaso. Fu Walter Crane che nel 1892 pubblicò sulla rivista A Wonder Book For Girls & Boys il disegno di Pegaso che disarciona Bellerofonte.
Illustrazione di Walter Crane apparsa alla fine dell'Ottocento sulla rivista A Wonder Book For Girls & Boys che raffigura Pegaso nell'atto di disarcionare Bellerofonte (1892).
Il disegno è vivido e ben trasmette l’impulso del cavallo dinanzi al desiderio del suo padrone di voler raggiungere gli dèi e come loro divenire immortale.
Concludiamo la rassegna artistica su Pegaso con un’opera italiana dei nostri giorni. Si intitola La nascita di Pegaso ed è opera del pittore milanese Carlo Adelio Galimberti che nel 2002-2003, ha dedicato al mito di Perseo un ciclo pittorico composto di diciannove quadri.
La nascita di Pegaso del pittore contemporaneo Carlo Adelio Galimberti. La testa di Medusa è presa dalla celebre scultura del Perseo di Cellini in Piazza della Signoria a Firenze (2002).
Immagine: http://www.carloadeliogalimberti.it/tema/perseo/La%20nascita%20di%20Pegaso.jpg
In questo dipinto di forte impatto emotivo, il candido Pegaso dal crine di sangue è appena venuto drammaticamente alla luce. Il sangue della madre è ancora fresco e cola abbondante lungo la parte inferiore della tela. Da quel collo aperto, solo evocato, prende vita il cavallo mentre il volto di Medusa, ritratto a sua volta di quello del Perseo di Cellini (figura sotto), è contratto in una smorfia di dolore nobilmente trattenuta.
Particolare della statua in bronzo di Perseo scolpita da Benvenuto Cellini. A questa testa di Medusa si è ispirato il pittore Galimberti nel suo dipinto sulla nascita di Perseo (Loggia dei Lanzi, Firenze, 1545).
Immagine: http://www.didatticarte.it/Blog/?p=3707