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CAVALLINO
Equuleus, Equulei
Equ
La costellazione del Cavallino nell'Uranographia di Hevelius insieme a quella del Delfino e della Freccia (1690).
Immagine: http://www.atlascoelestis.com
Il Cavallino può considerarsi la costellazione più moderna fra quelle antiche. Il primo a parlarne fu infatti un astronomo poco conosciuto, tal Gemino da Rodi, vissuto nel I secolo a.C., recente dunque rispetto a Eudosso, Arato ed Eratostene, i primi astronomi-mitografi vissuti nel IV e nel III secolo a.C.
Negli anni dal 141 al 120 a.C. poi l’isola di Rodi aveva ospitato il grande Ipparco da Nicea che lì vi trascorse l’ultima parte della sua vita. Gemino, nativo dell’isola dove Ipparco compì gran parte dei suoi studi e delle sue osservazioni, fece risalire a lui la piccola costellazione del Cavallino e quattro secoli dopo, nel II secolo d.C., la troviamo annoverata ufficialmente da Tolomeo fra le 48 del suo Almagesto. In quest'opera la costellazione non ha ancora il nome moderno di Cavallino, ma è chiamata Protomè Ippon, dove protomè in greco significa testa ma nell’accezione di busto, in accordo con la figurazione che ne viene data.
Prima di Gemino, c’era solo la costellazione del Cavallo che solo più tardi, forse nel Medioevo, cambiò il nome in Pegaso, in accordo col mito che nel frattempo la tradizione aveva privilegiato.
Fra le versioni mitiche associate al Cavallo, oltre a quella del destriero di Bellerofonte, vi era descritta anche la storia che sarebbe poi stata di pertinenza esclusiva del Cavallino, così che la piccola costellazione venne a rappresentare ciò che era in origine la figura del Cavallo, ossia un destriero senza le ali. Come si può vedere nella tavola uranografica di Hevelius dedicata a Pegaso il Cavallino infatti, ad eccezione delle ali, è la copia in miniatura del cavallo alato rappresentato frontalmente e solo fino al petto.
La costellazione di Pegaso nell'Uranographia. Confrontandola con quella del Cavallino si nota come quest'ultima sia la rappresentazione in miniatura della costellazione del Cavallo, successivamente chiamata Pegaso.
Immagine: http://www.atlascoelestis.com
Ma chi si nasconde dietro la costellazione più piccola dell’emisfero boreale? Si rimane quasi certamente sorpresi nell’apprendere che innanzitutto non si tratta di un cavallo maschio ma di una femmina e che inoltre l’animale è il frutto della metamorfosi di una fanciulla.
Il suo nome era Ippe, un nome che come spesso accade nella mitologia greca, conteneva il suo destino visto che cavallo in greco si dice ippòs. Ippe era la figlia del centauro Chirone, il più saggio della razza ibrida conosciuta per la sua istintività aggressiva . Nonostante il padre fosse un centauro, dalla vicenda mitica si deduce che Ippe aveva originariamente sembianze completamente umane e si unì a Eolo, da non confondersi però col dio dei venti. Questo Eolo era il re della Tessaglia e il suo nome è divenuto famoso in quanto fu il capostipite della stirpe greca degli Eoli. Suoi fratelli erano Xuto e Doro, quest’ultimo fondatore invece della stirpe dorica. Si dice che Eolo abbia sedotto Ippe e dall’unione con lui, la giovane rimase incinta. Ma Ippe era devota ad Artemide, la dea della caccia che ammetteva al suo seguito solo fanciulle vergini. Così, fin quando il ventre lo permetteva, la figlia di Chirone non ebbe difficoltà a tacere la gravidanza, ma quando il gonfiore si fece sospetto, la ragazza decise di scappare per non essere scoperta dal padre e ancor meno dalla dea. Chirone viveva in una grotta del monte Pelio in Tessaglia ed era rinomato, unico fra i centauri, per le sue virtù di saggezza e conoscenza delle arti. Non avrebbe mai permesso che l’onta della figlia macchiasse il suo nome. Per questo Ippe fuggì nei boschi intricati della regione tessalica. Ma non appena si accesero le prime stelle senza che la figlia avesse fatto ritorno alla grotta, Chirone si mise al galoppo setacciando tutti i dintorni. Conosceva quei boschi come la rugiada sulle felci, eppure di Ippe nessuna traccia.
Trascorsero tutti i nove mesi della gestazione senza che il centauro la potesse riabbracciare. In preda alla disperazione e temendo ormai il peggio, non smise tuttavia di cercarla. Chirone in realtà non la vide mai più. Quando infatti giunsero le doglie, Ippe si trovava in una piccola radura nascosta da un saliscendi di rocce; con le lacrime che le rigavano la pelle, pregava gli dèi mentre dava alla luce una bambina: “Trasformatemi, o dèi onnipotenti… – sussurrava – Non lasciate che il padre mio conosca il mio disonore, se mai amarsi possa dirsi disonore. Melanippe è il nome che voglio dare a questa creatura, il nome che avrà sua madre quando esaudirete la mia preghiera”. Gli immortali ascoltarono le parole di quella voce spezzata e, mentre ancora singhiozzava, fu avvolta in un turbinio luminoso e sollevata nel firmamento dove apparve sottoforma di giumenta, come lei desiderava. Melanippe infatti significa cavallo nero, proprio come le sembianze che aveva assunto e come il tenue splendore delle sue poche stelle.
La costellazione del Cavallino inoltre sorge quando quella del Centauro, che rappresenta Chirone, tramonta. Così gli dèi esaudirono il desiderio di Ippe di non essere mai scoperta dal padre. Il mito di Ippe e Chirone non è sicuramente fra quelli più conosciuti e si rimane probabilmente sorpresi di trovarlo addirittura rappresentato sulla volta stellata a discapito di tante altre storie ben più note. Eppure nei tempi antichi, questa favola doveva godere di una discreta fama. Le uniche due fonti in nostro possesso che parlano del mito legato alla costellazione, iniziano entrambe il racconto citando la tragedia di Euripide intitolata Melanippe. L’ultimo grande tragico greco scrisse addirittura due tragedie sulla figlia di Ippe: Melanippe liberata e Melanippe filosofa, purtroppo andate entrambe perdute. Ciò significa che al tempo il mito era presente nella memoria collettiva e degno di essere rappresentato a teatro come nel firmamento.
Il più antico dei racconti sui miti che avvolgono la costellazione del Cavallino – ancora però indistinta da quella di Pegaso – è quello dell’astronomo Eratostene, nato a Cirene nel 275 a.C. A parte qualche variante rispetto al racconto posteriore di Igino che vedremo fra poco, rende conto della posizione riservatale in cielo e del motivo per cui è rappresentata frontalmente e per metà. Fra l'altro in questa versione è proprio Artemide a porla fra le stelle, senza dunque portarle alcun rancore.
Euripide dice nella “Melanippe” che era Ippe figlia di Chirone; fu sedotta da Eolo con l’inganno e come il ventre si ingrossava per la gravidanza, si rifugiò sui monti e là si trovava, in preda alle doglie del parto, quando sopraggiunse suo padre che la cercava ed ella pregò, una volta catturata, di essere trasformata per non essere riconosciuta e diventò un cavallo. Per la sua pietà dunque e per quella di suo padre, Artemide la pose fra le stelle, in una posizione da dove non è visibile al Centauro. Si dice infatti che il Centauro è Chirone. La parte posteriore del suo corpo non è visibile, in modo che non si possa riconoscere che si tratta di una femmina.
(Eratostene, Epitome dei catasterismi, 18)
La seconda descrizione del gruppo di stelle che ci è pervenuta è quella dell’astronomo romano Igino vissuto alla corte di Augusto fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Al pari di Eratostene, anch’egli ne parla citandola come una delle versioni mitiche legate alla costellazione del Cavallo e anch’egli inizia la narrazione partendo dalla tragedia euripidea.
Euripide, nella “Melanippe”, racconta che Ippe, figlia del centauro Chirone, si chiamava originariamente Teti. Cresciuta sul monte Pelio si era dedicata con passione alla caccia, ma un giorno si lasciò sedurre da Eolo, figlio di Elleno e nipote di Giove, e restò incinta. Avvicinandosi la data del parto, fuggì nel bosco perché il padre, che la credeva ancora vergine, non la vedesse mentre gli metteva al mondo il nipote. Così, quando egli cominciò a cercarla, pregò gli dèi onnipotenti, affinché il parto avvenisse al riparo del suo sguardo. Gli dèi la esaudirono e, dopo aver partorito, la posero fra le stelle trasformata in giumenta.
(Igino, Poeticon Astronomicon, 2.18)
Se il teatro rese omaggio al mito di Ippe attraverso la tragedia euripidea della figlia Melanippe, l’arte al contrario fu più parca nei confronti della leggenda. Dall’antichità infatti non ci sono giunte pitture vascolari o altri tipi di reperti artistici inerenti la metamorfosi di Ippe in giumenta o, se ci sono, non hanno riscontrato abbastanza successo da divenire pezzi di rilievo nelle collezioni museali. Molto più ricca è invece l’iconografia dedicata a Chirone, ma per vedere la metamorfosi di Ippe in giumenta non resta che affidarsi ai cataloghi stellari come quello di Hevelius (a inizio pagina) in cui le costellazioni sono rappresentate nella loro versione mitica.
Nel 1690 fu pubblicata a Danzica l’opera dell’astronomo polacco contenente le tavole delle costellazioni e il Cavallino compare nella stessa lastra del Delfino e della Freccia, essendo i tre gruppi di stelle piccoli e vicini fra loro. Come si può notare, del Cavallino-Ippe è raffigurata solo la testa che si trova affiancata a quella di Pegaso e, nella pagina dedicata invece a quest’ultima costellazione, si può apprezzare meglio il particolare dell’assenza delle ali.