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AQUILA
Aquila, Aquilae
Aql
La costellazione dell’Aquila nell'Uranographia di Hevelius (1690).
Immagine: http://www.atlascoelestis.com
L’Aquila di stelle che ad ali spiegate vola fra le costellazioni estive, si dice sia l’aquila di Zeus o Zeus stesso quando ne prese le sembianze per rapire Ganimede, conosciuto in cielo come l’Acquario.
I miti che stanno dietro al gruppo di astri capeggiato dalla splendente Altair, sono diversi a seconda di come si interpreta la costellazione: da un lato vi è la storia di Zeus e Ganimede, mentre dall’altro quella di Prometeo, il Titano che amava la stirpe umana.
Non è un caso infatti che l’Aquila si trovi proprio a metà strada fra le costellazioni che evocano i due miti: a oriente è seguita dall’Acquario-Ganimede mentre a occidente è preceduta da Ercole e dalla Freccia, che la sovrasta di pochi gradi, ricordando così la vicenda che la legò a Prometeo.
Dato che la costellazione dell’Acquario porta univocamente con sé il mito di Zeus trasformato in aquila, racconteremo ora dell’aquila che il re dell’Olimpo tramutò in stelle come ringraziamento della fedeltà e dei servigi ricevuti.
Si era da poco concluso lo scontro colossale fra gli dèi Olimpii e i Titani, la cosiddetta Titanomachia, la guerra che vide Zeus salire sul trono dell’universo e mettere per sempre la parola fine al regno di Crono e, così facendo, a quella che è ricordata come l’età dell’oro. Lo scettro passò dalla mano dei dodici Titani, la prima generazione di dèi, a quella dei dodici Olimpii, la seconda generazione di dèi, poiché Crono era il padre di Zeus e di altri cinque fra gli dèi adottati ufficialmente dagli antichi Greci.
Fra i primi immortali, figli di Urano e di Gea, vi era Giapeto che si unì all’Oceanina Climene ed ebbe quattro figli: Menezio, Atlante, Epimeteo e Prometeo. Menezio era orgoglioso e tracotante e per questo Zeus lo colpì col fulmine e lo scagliò nell’Erebo, la tenebra del regno dei morti. Atlante invece venne confinato all’estremo occidente, nella terra delle Esperidi che non conosce la luce del sole: suo destino fu sostenere la volta stellata sulle spalle gigantesche. Di Epimeteo invece il nuovo reggente si servì per vendicarsi di Prometeo che lo aveva ingannato. Questi due fratelli portavano nel nome la loro essenza: Pro-meteo significa “vedo prima” mentre Epi-meteo, al contrario, “vedo dopo”. Così Prometeo era colui che prevedeva, che capiva prima, mentre Epimeteo colui che soltanto dopo, quando ormai era tardi per tornare indietro, comprendeva. A loro sono legate le sorti della nostra stirpe, l’umana, nel bene e nel male. Gli uomini dunque. Essi furono una creatura voluta dalla prima generazione di dèi, quella dei Titani, nacquero per loro desiderio e vissero sotto il regno di Crono. Questa prima stirpe fu detta aurea perché i suoi figli non conoscevano affanno, la terra li nutriva spontaneamente; non conoscevano nemmeno la vecchiaia, ma rimanevano giovani e robusti. Dagli dèi si distinguevano solo per l’immortalità che non venne loro concessa; ma la morte era senza dolore, quando si spegnevano non facevano altro che addormentarsi. La terra custodiva i loro corpi, mentre i loro spiriti vi aleggiano sopra come demoni buoni a protezione degli altri viventi.
La stirpe d’oro finì con la sconfitta dei Titani e la seconda generazione di uomini fu creata dai nuovi reggenti, gli Olimpii. Stavolta erano uomini d’argento, meno “pregiati” dunque, creature che vivevano spensierate per i primi cento anni della loro vita, dopodiché divenivano stolti e superbi e soprattutto non onoravano gli immortali. Per questo Zeus li fece morire, concedendo tuttavia ai loro spiriti di sopravvivere, seppure come demoni malvagi. Toccò poi alla terza generazione umana, quella di bronzo, metallo impuro, impasto di rame e stagno. Fu Zeus a volerla e la creò dai frassini. Il frassino: perché mai proprio questo albero? Fu un caso? No, perché le scelte dell’onnipotente non furono mai lasciate al caso, cui una ragione dunque doveva esserci. E infatti Zeus scelse questo legno perché così facendo avrebbe richiamato in causa Urano e Gea, la coppia primordiale che generò i Titani ma anche le ninfe Meliadi, le ninfe dei frassini, poiché frassino in greco si dice meliòs. Con questa generazione Zeus volle provocare la scintilla che avrebbe risvegliato il cuore dei Titani figli di quei Titani che per primi vollero l’esistenza dell’uomo, quell’uomo che quando crearono, amarono, all’infinito, donandogli felicità eterna e morte senza dolore. Ccon la stirpe di bronzo Zeus volle istigare il cuore di Prometeo. Gli uomini della terza generazione erano i Melioi, appunto perché ricavati dai frassini, alberi dalla corteccia dura e incorruttibile, proprietà che nel tessuto umano si tradussero in forza e violenza. Gli uomini della stirpe di bronzo erano smisuratamente vigorosi e brutali. Essi si macchiarono di efferati delitti così che per la prima volta, morirono di propria mano. Anche i loro corpi, al pari delle stirpi precedenti, erano custoditi nel grembo di Gea, ma i loro spiriti scendevano per la prima volta e per sempre nell’Ade dove vivevano sottoforma di ombre infelici.
Dinanzi ai suoi fratelli, Zeus un giorno ci tenne a sottolineare che la causa dei mali dell’uomo non erano gli dèi ma loro stessi per le colpe infami che per primi commisero.
Ah quante colpe fanno i mortali agli dèi! Da noi dicon essi che vengono i mali, ma invece per i loro folli delitti contro il dovuto, han dolori.
(Omero, Odissea, I, 32-34)
Ma i Melioi erano creature care ai Titani, per via della loro discendenza dai frassini e quindi dalle ninfe Meliadi loro sorelle, e infine da Gea. Molte del resto sono le analogie fra gli esseri umani e i primi dèi: i Titani sono dèi sconfitti, non sono mai arrivati alla vetta dell’Olimpo, dunque sono come una sorta di dèi mancati, proprio come gli uomini che dagli dèi si distinguevano perché mortali; i Titani sono temerari e lo stesso si può dire degli esseri umani che nella generazione di bronzo divennero omicidi. E i Titani infine sono sofferenti. Dopo essere stai vinti, furono relegati nell’odioso Tartaro e quelli che invece rimasero sulla terra vennero sottoposti a supplizi dalla durata eterna: Atlante nella terra delle Esperidi, all’estremo occidente, costretto a stare immobile con tutto il peso del cielo su di sé e Prometeo, in Scizia, all’estremo oriente, inchiodato per punizione a una rupe. E per quanto riguarda gli uomini, serve forse raccontare della loro sofferenza?
Per tutti questi motivi, i Titani erano e si sentivano intimamente legati alla razza umana e Prometeo più di ogni altro avvertì questo legame. Egli desiderò ardentemente perfezionare la stirpe di uomini che Zeus aveva creato dopo che quelle d’oro e d’argento si erano estinte. Il Titano approfittò così di una disputa che era sorta fra i mortali e le divinità dell’Olimpo.
Quando la loro contesa dirimevano dèi e uomini mortali a Mecone, allora
un grande bue, con animo consapevole, [Prometeo] spartì, dopo averlo
diviso, volendo ingannare la mente di Zeus; da una parte infatti carni e
interiora ricche di grasso pose in una pelle, nascostele nel ventre del bue,
dall’altra ossa bianche di bue, per perfido inganno, con arte disposte,
nascose nel bianco grasso. E allora a lui disse il padre degli uomini e degli dèi:
“O figlio di Giapeto, illustre fra tutti i signori, amico mio caro,
con quanta ingiustizia facesti le parti”. Così disse Zeus beffardo che sa eterni consigli,
ma a lui rispose Prometeo dai torti pensieri, ridendo sommesso,
e non dimenticava le sue ingannevoli arti: “O Zeus nobilissimo, il più grande
degli dèi sempre esistenti, di queste scegli quella che il cuore nel petto ti dice”.
Così disse meditando inganni, ma Zeus che sa eterni consigli riconobbe l’inganno,
né gli sfuggì, e mali meditava dentro il suo cuore per gli uomini mortali e a compierli si preparava.
Con ambedue le mani il bianco grasso raccolse; si adirò dentro l’animo e
l’ira raggiunse il suo cuore, come vide le ossa bianche del bue frutto del perfido inganno:
è da allora che agli immortali la stirpe degli uomini sulla terra brucia ossa bianche sugli altari odorosi.
(Esiodo, Teogonia, 535-557)
Zeus aveva dunque scelto per gli dèi lo scarto lasciando la parte migliore agli esseri inferiori. Per questo si vendicò sottraendo agli uomini uno dei doni più preziosi: il fuoco. Ma Prometeo amava troppo le creature effimere per lasciarle vivere fra gli stenti. Fu lui all’inizio dell’egemonia di Zeus che li elevò dalla condizione infima in cui si trovavano.
Rapido – s’era allora insediato Zeus sul trono del padre –
di volo spartiva i poteri, il proprio a ciascuno dei numi,
e pensava a inquadrare, fila per fila, il suo impero.
Degli uomini invece – dolente miseria – non volle saperne.
Aspirava a dissolverne il ceppo, a fondo,
a trapiantarne una fresca semenza.
Nessuno provava a resistergli, in questo: io da solo.
Io, temerario, io volli salvare i viventi,
che non finissero – polvere sfatta – sotterra, da Ade.
(Eschilo, Prometeo incatenato, 223-236)
e case di mattoni al posto delle grotte, l’osservazione delle costellazioni per distinguere le stagioni e prepararsi all’inverno, il calcolo, la scrittura, l’arte profetica: tutto questo i viventi lo dovevano a Prometeo.
Anche prima di me guardavano, ed era cieco guardare;
udivano suoni, e non era sentire; li vedevi, erano forme di sogni,
la vita un esistere lento, un impasto opaco senza disegno.
(Eschilo, Prometeo incatenato, 447-450)
Più che mai ora il Titano non poteva abbandonare i suoi figli. Fu così che meditò il secondo inganno a Zeus: il furto del fuoco. Prese un nartece, pianta dallo stelo lungo e cavo adatta a conservare la fiamma grazie al suo midollo tenero, e rubò il quarto elemento a Zeus, signore della folgore, restituendolo agli uomini. Indicibile lo sdegno del dio quando, dalle vette celesti, vide la terra punteggiata qua e là di luci crepitanti attorno alle quali i mortali si scaldavano e arrostivano le carni. Senza attendere un momento di più andò da Prometeo e con dure parole gli gridò la punizione cui sarebbero andati incontro, sia gli esseri umani che lui stesso.
O figliolo di Giapeto, tu che sei il più ingegnoso di tutti,
ti rallegri di aver rubato il fuoco e di avere eluso i miei voleri:
ma hai preparato grande pena a te stesso e agli uomini che dovranno venire.
A loro, qual pena del fuoco, io darò un male del quale tutti si rallegreranno nel cuore,
facendo feste allo stesso loro male”.
Così parlò, poi rise il Padre degli uomini e degli Dèi.
(Esiodo, Le opere e i giorni, 54-59)
Il male di cui si sarebbero rallegrati gli uomini era la donna. Fino ad allora non era mai esistita, la stirpe mortale era composta di soli maschi, creati dagli dèi impastando la terra e non ancora affidati al ventre materno. La prima donna, per volere di Zeus, si chiamò Pandora che letteralmente significa “tutti doni”, poiché ricevette doni da tutti gli dèi e fu dono per gli uomini da parte di tutti gli dèi. Zeus aveva infatti incaricato ciascuna divinità di dare un proprio contributo alla creazione di Pandora: Efesto, il dio fabbro, l’avrebbe plasmata dalla terra e dall’acqua donandole la voce e il vigore. Doveva essere vergine e bella al pari delle dee; Atena l’avrebbe istruita, Afrodite l’avrebbe resa irresistibile agli occhi degli uomini, mentre Hermes, il messaggero degli dèi ma anche il dio dei ladri, le avrebbe dato un’anima sfacciata e menzognera. Zeus infine fece recapitare il regalo allo sprovveduto Epimeteo, il quale non si curò dell’avvertimento ricevuto dal fratello di non accettare mai doni dal signore dell’Olimpo, perché avrebbero arrecato danni ai mortali. Soltanto dopo, quando ormai era tardi, Epimeteo comprese il male. Pandora infatti portava con sé un grande vaso che doveva restare chiuso perché dentro c’erano i mali. Ma quando fu dinanzi all’ingenuo, la donna bellissima sollevò il coperchio e tutte le malattie uscirono e insieme ad esse le disgrazie e si diffusero ovunque sulla terra col soffio del vento. L’uomo era perduto per sempre.
Soltanto la Speranza là, nella intatta casa,
dentro rimase sotto i labbri dell’orcio, né volò fuori,
perché prima Pandora rimise il coperchio sull’orcio,
secondo il volere dell’egioco Zeus, adunatore di nembi.
(Esiodo, Le opere e i giorni, 96-99)
Quanto a Prometeo, la punizione fu esemplare: sarebbe stato incatenato a una vetta gelida del Caucaso, in Scizia, terra selvaggia, lontana, deserta. Era il confine orientale del mondo: oltre gli antichi non si erano mai spinti. Lo accompagnò nel regno solitario Efesto scortato da Kratos e Bia, Dominio e Violenza, con l’incarico di fissare alla roccia le catene che aveva forgiato per ordine di Zeus, e di serrarle infine ben strette attorno ai polsi e alle caviglie di Prometeo. Giunti sul luogo disgraziato, Kratos con la vendetta fra i denti si scagliò contro Prometeo.
La gemma ch’è tua, la fiamma lucente radice d’industrie,
lui l’ha carpita l’ha fatta compagna dell’uomo.
Eccolo, il suo delitto: è dovere che ne sconti il castigo degli dèi.
Gli serva da scuola, per farsi devoto a Zeus Padrone,
per spegnere quel suo amoroso tendere all’uomo.
(Eschilo, Prometeo incatenato, 6-11)
Eseguito l’ordine di Zeus, i tre se ne andarono abbandonando il figlio di Giapeto alla lama affilata del vento scitico, mentre tutto intorno creste bronzee si susseguivano ruvide. A gran voce il Titano, gigantesco nella sua mole, gridava trapassando anche le nubi e il suo grido echeggiava potente.
Mi vedete? Sono io, dio disperato, legato io
incarno l’odio di Zeus, tocco il fondo dell’odio di
tutti gli dèi, quanti fanno corona al soglio di
Zeus. Radice è il mio affetto violento per l’uomo.
(Eschilo, Prometeo incatenato, 118-123)
Ma Prometeo portava dentro di sé un segreto, un segreto di vitale importanza per Zeus, un segreto che avrebbe potuto riscattarlo: il sovrano celeste rischiava di essere rovesciato dal trono, il suo regno di essere distrutto. La notizia giunse alla dimora olimpica dopo che Prometeo un giorno si sfogò nel vento
Di me, sì, di me – di quest’infamia vivente coi polsi nei ceppi di ferro –
avrà urgenza il sovrano celeste: che gli spieghi il nuovo tranello,
la mano decisa a razziargli corona e potere.
Dolci scongiuri a incantarmi, fascini a farmi dire di sì: nulla potranno.
Né mai mi fletto all’aspra minaccia. Non chiarirò il segreto,
se prima non snoda i disumani ceppi,
e consente a pagarmi il riscatto d’osceno martirio.
(Eschilo, Prometeo incatenato, 168-177)
Colui che avrebbe detronizzato Zeus sarebbe stato il figlio che avrebbe avuto da Teti, la nereide, se si fosse unito a lei. Egli stava proprio preparando queste nozze, ignaro del fatto che gli sarebbero state fatali.
Boati, saette non potranno fargli da scudo,
evitargli uno schianto umiliante, insopportabile.
Con le mani, si sta fabbricando a suo danno un campione di lotta,
un miracolo, ostico, senza sconfitta.
Sarà lui a scovare saetta più robusta del fulmine,
e boato possente che schiaccia la voce del tuono,
saprà sperdere nel nulla l’oceanica febbre che fa spasimare la terra,
l’arpione, lama acuta di Poseidon.
Lascia che Zeus picchi contro questo sfacelo:
saprà allora l’abisso tra dominare e vivere servo.
(Eschilo, Prometeo incatenato, 918-927)
La paura di un simile destino rodeva Zeus fin tanto che lo costrinse a inviare Hermes al cospetto di Prometeo, per fargli svelare chi fosse colui che minacciava la sua gloria. Ma a nulla valse l’insistenza con cui il messaggero degli dèi infieriva sul Titano, poiché Zeus voleva la verità senza sciogliere le catene. Così alla fine Hermes, stanco dell’ostinazione di Prometeo, gli rovesciò addosso parole tremende sul futuro che l’onnipotente gli avrebbe riservato per la sua impudenza.
Comincerà così. A boati, a colpi di saetta lucente il Padre
ti spacca il tuo precipizio scoglioso.
La tua carne sprofonda, ti raccoglie tenaglia di sasso.
Sconterai fino in fondo vastissimi anni, per riemergere al sole.
Allora il segugio volante di Zeus, l’aquila striata di sangue,
golosa, farà macello di te, cencio smisurato di carne:
tu non l’inviti, ma lei scivola dentro, al festino,
e finché dura la luce fa onore alla mensa, al tuo fegato scuro!
Non illuderti, non esiste confine al tormento,
se prima dai celesti non sorge uno che erediti il tuo sacrificio,
deciso a calarsi sotterra, dove raggio non brilla,
nel Tartaro cavo, spento.
(Eschilo, Prometeo incatenato, 1016-1029)
Detto fatto: ogni mattina l’aquila di Zeus appariva nel sole e planava sul ventre di Prometeo; col becco adunco lo squarciava facendolo sanguinare fino a raggiungere il fegato. Lì si avventava nervosamente, ne strappava pezzi puntellandosi con le zampe sul fianco. La Scizia rimbombava tutta del grido smisurato di Prometeo, spasimi strazianti nel bagliore del giorno. Poi, quando il sole si scuriva e si preparava a discendere l’orizzonte, il rapace fermava il suo becco e faceva ritorno al padrone. Il Titano, sfinito, restava di nuovo solo, nel silenzio irreale, argenteo delle rocce; sopra di lui uno scintillio infinito di stelle. E proprio allora, prodigio incredibile, il fegato maciullato cominciava a rimarginarsi e a riformarsi per intero. Perché Prometeo era immortale, la morte non aveva presa su di lui, ogni parte del suo corpo era destinata a riformarsi, a rivivere. Ma dissolte le ultime stelle, ecco il volatile riapparire in lontananza, alto nel cielo irrorato di luce, pronto a ricominciare lo scempio. Battito d’ali solenne scandiva la minaccia rendendola, metro dopo metro lungo il volo, sempre più reale. Passarono i secoli prima che Prometeo potesse vedere la fine del suo supplizio. E questa avvenne per mano di un figlio di Zeus. Il suo nome risuonava già per tutta la Grecia e ben oltre: questo uomo aveva raggiunto la terra delle Esperidi dove dimorava Atlante, e perfino l’Ade, vietato ai viventi e privo di ritorno. Era Eracle, l’unico eroe che alla sua morte venne ammesso all’Olimpo divenendo così dio. Come Prometeo aveva scontato una vita dannata, fatta di prove all’eccesso e senza mai una tregua. Il giorno in cui si imbatté nel Titano stava tornando proprio dall’impresa nel giardino delle Esperidi.
Passato al continente opposto, Eracle con un colpo di freccia abbatté sul Caucaso l‘aquila, nata da Echidna e da Tifone, che divorava il fegato di Prometeo. Liberò Prometeo e mise <la corona> d’olivo <in memoria> delle sue catene. Offrì a Zeus Chirone che voleva morire, lui immortale, al posto di Prometeo.
(Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 11)
Ed ecco dunque la predizione di Hermes secondo cui il Titano avrebbe conosciuto la libertà solo se un altro si fosse sacrificato al suo posto. Chi si offrì fu Chirone, il centauro rinomato per la sua saggezza, virtù sconosciuta alla razza ibrida. Grazie all’arco di Eracle, Prometeo venne così liberato, mentre l’aquila per la devozione al suo signore, fu da questi portata ben oltre le altitudini che era solita dominare; entrò nel regno degli astri dove fu trasformata in costellazione. Lassù, da allora, brilla con la forza di Altair, sovrana delle creature piumate, orgoglio e simbolo di Zeus potente. Come c’è da aspettarsi, il mito di Prometeo è stato estremamente affascinante per il mondo dell’arte. Dal furto del fuoco, al supplizio, fino alla liberazione per mano di Eracle, gli episodi che hanno caratterizzato la vita del Titano hanno tutti trovato ampio posto nelle rappresentazioni visive. E insieme a Prometeo, immancabile fu la presenza dell’aquila.
Una delle immagini più antiche della tortura cui fu sottoposto Prometeo, si trova su una kylix dell’antica Laconia, la regione di Sparta.
Kykix laconica attribuita al Pittore di Naucrati con l'aquila e Zeus o Prometeo (VI secolo a.C., Louvre).
Immagine: www.theoi.com/Gallery/T20.1C.html
Risale al 560-550 a.C., quando l’arte greca era nel suo periodo detto arcaico, riconoscibile dalla tecnica a figure nere con cui i soggetti venivano dipinti. Questo recipiente consiste in una coppa ampia e poco profonda provvista di manici e sorretta da uno stelo sottile, a sua volta fissato su un piede circolare. Veniva usata durante i simposi e quindi la bevanda che conteneva era il vino. Sul fondo delle kylix vi è quasi sempre un dipinto, come in questo caso, di modo che la scena si scopriva solo man mano che si beveva. L’interpretazione della kylix laconica attribuita al Pittore di Naucrati è tutt’oggi duplice, poiché nell’uomo seduto di fronte al quale sta planando un’aquila, si può vedere Zeus col suo animale sacro o Prometeo pochi istanti prima dell’attacco diurno. Entrambe le versioni sono attendibili in quanto l’uomo si presenta con un abito prezioso, regale e acconciatura e barba sono quelle con cui tipicamente vengono rappresentati gli dèi. D’altra parte però di questo uomo non si vedono le braccia, motivo per cui potrebbero essere legate evocando così l’immagine di Prometeo. Il prezioso recipiente si trova al Louvre.
Di poco più recente, del 530 a.C., è la piccola anfora a figure nere conservata ai Musei Vaticani di Roma in cui vi è inequivocabilmente rappresentato Prometeo sotto l’attacco dell’aquila.
Anfora laconica con Prometeo e il fratello Atlante (VI secolo a.C., Musei Vaticani).
Immagine: www.theoi.com
Come la kylix del Pittore di Naucrati, proviene dalla Laconia e rappresenta non solo Prometeo, ma anche suo fratello Atlante. Il Pittore, di cui nulla sappiamo, ha voluto mostrare il supplizio dei due fratelli: Atlante all’estremo occidente – luogo simboleggiato dalla presenza del serpente, guardiano del giardino delle Esperidi – sorregge la volta celeste sottoforma di enorme masso, probabilmente per ricordare che Atlante stesso fu pietrificato e trasformato in una montagna, e Prometeo all’estremo oriente, legato a una colonna come narrava il poeta Esiodo.
[Zeus] legò Prometeo dai vari pensieri con inestricabili lacci,
con legami dolorosi, che a mezzo d’una colonna poi avvolse,
e sopra gli avventò un’aquila, ampia d’ali,
che il fegato gli mangiasse immortale, che ricresceva altrettanto la notte
quanto nel giorno gli aveva mangiato l’uccello dall’ampie ali.
(Esiodo, Teogonia, 521-525)
Per vedere invece Prometeo liberato, bisogna andare allo Staatliche Museen di Berlino, dove su un cratere apulo a figure rosse del 350 a.C., spicca il Titano, visibilmente provato.
Cratere apulo a figure rosse raffigurante Prometeo liberato da Eracle (IV secolo a.C., Staatliche Museen, Berlino).
Immagine: www.theoi.com/Gallery/T21.4.html
Le mani sono ancora legate alla roccia, rappresentata come una cornice che circonda Prometeo, ma a sinistra ecco la mano di Eracle nell’atto di sciogliere i nodi. L’eroe è riconoscibile grazie ai suoi attributi distintivi della clava e della pelle di leone sulla spalla. A destra, l’elmo sollevato sul capo della figura femminile, ci dice che siamo dinanzi ad Atena. La sua presenza non è casuale, in quanto il mito vuole che Prometeo intervenisse alla nascita della dea. Il coro di Euripide ricorda l’episodio nel I stasimo della tragedia intitolata Ione:
Atena, tu hai visto la luce
senza doglie di parto:
Prometeo, il Titano,
ti aiutò a balzar fuori
dal capo di Giove.
(Euripide, Ione, 452-456)
Inoltre, in una versione del mito di Prometeo, fu il Titano a creare l’uomo, mentre Atena gli avrebbe insufflato l’anima. Nella fascia inferiore del cratere, vaso per la conservazione del vino durante il simposio, si vede invece l’aquila che precipita, ormai priva di vita. Scende nell’Ade, il regno sotterraneo dei morti governato dall’omonimo re e dalla consorte Persefone, qui rappresentata con una torcia tipica di Eleusi, cittadina a pochi chilometri da Atene dove nel santuario a lei dedicato, venivano celebrati in suo onore i cosiddetti misteri.
Avvicinandoci ai nostri tempi invece, troviamo la tavola in rame dedicata alla costellazione dell’Aquila incisa personalmente dall’astronomo polacco Johannes Hevelius (a inizio pagina). Essa appartiene all’opera intitolata Firmamentum Sobiescianum, sive uranographia, in Prodromus astronomiae, comunemente chiamata Uranographia e pubblicata a Danzica nel 1690. Si tratta di una raccolta di tavole in rame, effigiate ciascuna con la rappresentazione mitologica delle costellazioni sovrapposte alle stelle che ne delineano la forma. Come si vede l’Aquila è raffigurata insieme a un’altra costellazione, quella di Antinoo. Si tratta di una costellazione scomparsa, naturalmente non nel senso che quelle stelle in cielo non esistono più, ma nel senso che è stata esclusa dall’elenco ufficiale delle 88 costellazioni stilato nel 1922 dall’Unione Astronomica Internazionale. Antinoo era il compagno dell’imperatore Adriano e il re gli dedicò una costellazione allorché il giovane morì annegato nelle acque del Nilo. L’astronomo egiziano Tolomeo quando compose il suo Almagesto sedici anni dopo la morte di Antinoo, vi annoverò la debole costellazione. Il riferimento è chiaro: Adriano identificò Antinoo con Ganimede, il giovane che Zeus rapì sotto le sembianze di un’aquila e portò sull’Olimpo consacrandolo a coppiere degli dèi.
Una sublime rappresentazione di Prometeo è quella eseguita da un pittore francese poco conosciuto, ma che si è conquistato la fama proprio grazie a quest’opera, vero e proprio capolavoro di perfezione estetica. E’ Jean-Louis Cesar Lair che nel 1819 dipinse la Tortura di Prometeo, quadro conservato al Musée Crozatier di Le Puy-en-Velay.
Jean-Louis Cesar Lair, La tortura di Prometeo (1819, Musée Crozatier, Le Puy-en-Velay).
Il titano affronta con meraviglioso slancio il sacrificio impostogli da Zeus. Con animo nobile egli si tende, proprio come è nella natura della sua stirpe; Titano infatti deriva dal greco titainein che significa tendersi, laddove il riferimento fu a una grande opera cui si sarebbero tesi in modo temerario e per la quale in futuro sarebbero stati puniti. Il capo è reclinato sul braccio sinistro, il volto di straordinaria dolcezza ha gli occhi chiusi che paiono addormentati. Ma un’osservazione più attenta svela invece che sono stretti per il dolore e anche la bocca è lievemente piegata in una smorfia dolente. Accanto al drappo rosso che veste Prometeo vi è il nartece ancora fumante, appeso alla colonna, prova della colpa commessa verso Zeus. A sinistra infine ecco l’aquila, enorme, maestosa, determinata nella sua missione. Il becco sta per forare nuovamente il fianco del Titano, mentre alle spalle del rapace i raggi del sole filtrano da uno squarcio fra le nubi: è giorno, è il momento dell’atroce pasto.
Mezzo secolo dopo, nel 1868, un altro pittore francese intitolò un suo quadro a Prometeo. Si tratta di Gustave Moreau, celebre esponente del simbolismo. I suoi dipinti emanano sacralità e mistero che si esprimono negli sguardi, nei colori o negli elementi decorativi che in realtà nascondono dentro di sé un significato.
Gustave Moreau, Prometeo (1868, collezione privata).
Il Prometeo di Moreau è un uomo che nell’aspetto ricorda più un profeta che un Titano, suggerendo in questo modo un’identificazione del Titano che salvò gli uomini, col Messia venuto al mondo per lo stesso motivo.
A conferma di ciò, i tratti somatici e la veste ormai lacera evocano senza dubbio l’immagine del Cristo.
Anche senza considerare il titolo dell’opera dipinto nell’angolo in basso a sinistra, sono la presenza dell’aquila e il dettaglio della fiamma sul capo del protagonista, a ricondurre l’identità a quella di Prometeo.
A distanza di dieci anni, il pittore e professore tedesco Christian Griepenkerl, conosciuto anche per non aver ammesso all’Accademia delle Belle Arti di Vienna dove insegnava, il diciottenne Adolf Hitler, fu incaricato di dipingere il soffitto sovrastante la grande scala dell’Augusteum di Oldenburg. Questo palazzo fu il primo museo d’arte voluto nella città di Oldenburg. Sorse nel 1856 in stile fiorentino rinascimentale e deve il suo nome al granduca Paul Friedrich August, deceduto tre anni prima. Il tema commissionato a Griepenkerl fu Prometeo e di conseguenza il soffitto reca un ciclo pittorico dedicato al Titano. Di squisita finezza è l’immagine del furto del fuoco da parte di Prometeo.
Christian Griepenkerl, Il furto del fuoco (1878, Oldenburg).
Questi sopraggiunge furtivo da dietro una nube e appicca il fuoco accostando il nartece alla saetta che Zeus tiene in mano mentre dorme accanto a Ganimede, il coppiere degli dèi, riconoscibile per la presenza dell’anfora e della kylix con cui serviva il vino al suo signore. L’aquila veglia al fianco destro di Zeus, apparentemente ignara del furto che sta avvenendo. Tuttavia il suo sporgersi in avanti guardando la folgore, lascia intuire il vincolo infausto che presto la legherà a Prometeo.