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ERCOLE
Hercules, Herculis
Her
La costellazione di Ercole nell'Uranographia di Hevelius (1690).
Immagine: http://www.atlascoelestis.com
Per molto tempo la costellazione di Ercole ha avuto il nome di Inginocchiato (in greco Engònasin). Un uomo in ginocchio fu ciò che videro gli antichi astronomi greci in questo gruppo di stelle, senza identificarlo però con un personaggio preciso:
Una sagoma di inginocchiato, detta con il termine greco
di Engònasin, della cui origine non risulta alcun ragguaglio sicuro,
solleva la sua luce sulla destra proprio alla fine dei Pesci.
(Manilio, Astronomica, V, 645-647)
Tuttavia quell’uomo nella posizione sia di chi si sottomette sia di chi è stanco, ricordò sempre l’immagine di Ercole, stremato dopo le dodici imprese condotte quando era servo del cugino Euristeo.
La costellazione dell’Inginocchiato fu così successivamente ribattezzata in Ercole. E a questo nome il pensiero va a un uomo dalla forza inaudita, entrato nella memoria collettiva soprattutto per le dodici fatiche.
Della sua prestanza fisica Seneca fa dire al coro di una delle sue tragedie:
Le sue membra non sono accessibili a nessuna ferita:
sente il ferro spuntato, l’acciaio è troppo flessibile;
sul nudo corpo la spada si spezza
e il sasso rimbalza e disprezza il fato
e provoca la morte col suo corpo indomito.
Non potevano colpirlo le punte della lancia,
non l’arco teso da freccia scitica,
non i dardi che porta il freddo Sarmata
o i Parti che, posti in una regione torrida,
dirigono le frecce contro i vicini Nabatei,
più sicuri dei colpi degli arcieri cretesi.
Col suo corpo ha abbattuto le mura di Ecalia;
nulla gli si può opporre; ciò che si prepara a vincere
già è stato vinto – che piccola parte è caduta per le ferite?
Il suo aspetto troppo minaccioso ha avuto il potere del destino,
ed è sufficiente avere visto gli sguardi minacciosi di Ercole.
(Seneca, Ercole sul monte Eta, 151-166)
La descrizione è sicuramente incisiva e quanti hanno poca confidenza con la mitologia greca, limitano spesso la propria conoscenza del personaggio a questa immagine. Ma Ercole fu davvero solo una montagna di muscoli oppure riserva qualche altra peculiarità? La risposta è sì: Ercole è un personaggio molto complesso, sia per quanto riguarda il numero di imprese – ben più di dodici nella sua esistenza – sia per il ruolo che ha avuto nella delicata sfera del rapporto degli esseri umani col divino: subordinazione ma anche, nel suo caso, assunzione a divinità. Egli è stato infatti l'unico eroe mortale a essere venerato non solo come eroe ma anche come dio. Raccontare per esteso la sua vita richiederebbe spazi che esulano da questo sito, tuttavia fra le innumerevoli vicende di cui è stato protagonista, si possono individuare alcuni episodi chiave per comprendere l’essenza dell’eroe. Un famoso indovino evocato spesso nei miti greci, Tiresia, centrò in pieno attraverso una delle sue profezie gli avvenimenti fondamentali che avrebbero reso Ercole l’eroe più acclamato e venerato del mondo occidentale antico. Interrogato da Alcmena, la madre dell'eroe, sul destino del figlio ancora di pochi mesi, rispose:
Tale uomo al cielo che porta le stelle costui deve ascendere,
tuo figlio, eroe dal petto largo, di tutte le bestie e degli altri uomini più forte.
E’ suo destino abitare presso Zeus, dopo compiute dodici fatiche,
e tutta la sua mortalità la tratterrà una pira trachinia.
Sarà chiamato genero degli immortali
che hanno spinto queste fiere che vivono rintanate
a massacrarlo bambino. Verrà il giorno in cui
alla vista di un cerbiatto nel giaciglio
il lupo dai denti aguzzi non vorrà fargli del male.
(Teocrito, Idilli, XXIV Eraclino, 79-87)
Il destino di Ercole dunque era quello di essere il più forte, di dover compiere dodici fatiche, di morire su una pira trachinia, ovvero della città di Trachis in Tessaglia, e infine, a ricompensa di un’esistenza tribolata, di ascendere al cielo dimorando fra gli dèi dell’Olimpo. Gli ultimi due versi poi ci svelano che Ercole sarebbe stato un portatore di pace: il cerbiatto e il lupo avrebbero convissuto. Con altre parole il messaggio di salvezza viene ribadito ancora da Seneca nell’altra sua tragedia dedicata all’eroe:
Grazie alla mano di Ercole,
regna la Pace fra l’Aurora e il Vespero,
e nel luogo in cui il sole a mezzogiorno
nega le ombre ai corpi;
tutta la terra bagnata dal lungo circuito di Teti
è stata sottomessa dalla fatica di Alcide.
(Seneca, La follia di Ercole, 883-888)
Teti è nota soprattutto in quanto madre di Achille, ma qui è nominata come divinità del mare per indicare il mondo subacqueo. Alcide invece era il nome di Ercole alla nascita. E proprio partendo dai suoi nomi, iniziamo a conoscere il nostro personaggio, poiché in essi si celano particolari importanti del suo carattere.
Alcide deriva dal greco alché che significa coraggio. E di coraggio Ercole ne avrebbe avuto bisogno più di chiunque altro. La sola forza fisica infatti, per quanto unica, non gli sarebbe bastata se non fosse stata accompagnata da un altrettanto straordinaria forza d’animo: Ercole fu perseguitato per tutti i suoi giorni da una divinità. A causa di questo odio la sua vita fu un immane e incessante susseguirsi di prove al limite della sopportabilità e potenzialità umana. Pochi furono i momenti a casa, innumerevoli quelli lontano, quasi sempre la morte durante i suoi viaggi gli faceva assaporare il suo respiro. Fu così che l’incessante ostilità cui doveva far fronte, gli valse un nuovo nome. Cominciamo perciò a chiamarlo col suo nome greco, dato che quello latino di Ercole è un adattamento fonetico che non contiene più l’importante etimologia che vi sta dietro: Ercole è Eracle, dal greco Heras, Era, e kleos, gloria. Eracle significa dunque “gloria di Era” ed Era fu la divinità che tanto lo esecrò. Perché? Era, la Giunone dei Romani, era la consorte di Zeus; e Zeus come già aveva fatto tante altre volte, la tradì. L’amante del signore dell'Olimpo era una donna mortale, Alcmena, figlia del re di Micene, e dalla loro unione nacque appunto Eracle. La regina degli dèi non perdonò mai questo adulterio a Zeus, e così cercò vendetta con tutte le sue forze attraverso un’implacabile persecuzione di quel figlio non suo. Ma Eracle superò sempre tutte quante le prove pretese dalla dea, ottenendo così la gloria. Per questo gli fu dato il nuovo nome di “Gloria di Era”: Eracle. Come dice infatti lei stessa in preda alla collera:
A sua lode volge il mio odio, e se ordino azioni troppo crudeli,
ho solo dimostrato chi è suo padre, ho fatto strada alla sua gloria.
(Seneca, La follia di Ercole, 34-36)
Ci si può chiedere come mai, di tutti i figli di Zeus nati da un legame extraconiugale, Era si accanì così tanto proprio con Eracle. Direi che la risposta si trova nel fondamento stesso della sua nascita. Come narra il poeta Esiodo:
Il padre degli dèi e degli uomini volgeva nel suo animo altro disegno:
come creare un difensore contro il pericolo
e a vantaggio degli dèi e degli uomini industri.
(Esodo, Lo Scudo di Eracle, 27-30)
l padre degli dèi desiderava dunque consegnare al genere umano e a quello divino un figlio che fosse il più forte di tutta la nostra stirpe, un figlio capace di proteggere e difendere uomini e dèi impavidamente, un“Alcide” appunto. Ecco perché Era non poteva accettare che un’altra fosse la donna con cui il consorte generò un uomo così esclusivo. Viene spontaneo chiedersi ora chi era Alcmena, donna di stirpe mortale scelta per dare compimento a un così nobile disegno. Ebbene, bisogna sapere che il padre degli dèi aveva stabilito anche che il nascituro doveva discendere da Perseo, valoroso eroe nato dall’unione del dio con una regina terrena e che aveva già dato prova di animo impavido uccidendo la Gorgone Medusa. Quel nuovo figlio poi avrebbe ereditato il trono di Micene, città greca dell’Argolide, alla morte del re Elettrione. Così Zeus annunciò la nascita agli dèi:
“Ascoltatemi, o dèi tutti, e voi tutte, o dee,
ch’io dica quello che il cuore m’ordina in petto:
oggi un uomo, Ilitia, strazio del parto,
farà apparire, che regnerà su tutti i vicini,
della stirpe degli uomini che vengono dal mio sangue”.
(Omero, Iliade, XIX, 101-105)
Ilitia è la dea delle partorienti, mentre la stirpe a cui allude Zeus è appunto quella di Perseo. Alcmena soddisfaceva la condizione imposta essendo la nipote di Perseo, e per questo Zeus volle generare insieme a lei il difensore dell’umanità e delle divinità. Il padre degli dèi conquistò l’amore di Alcmena apparendole sotto le sembianze del marito Anfitrione, che ella attendeva di ritorno dalla guerra. Dovette addirittura triplicare la durata della notte per concepire un figlio dalla forza dirompente. Ma nulla è impossibile a Zeus e al termine dei nove mesi di gravidanza, poté dare agli dèi l’annuncio che abbiamo letto prima circa il successore di Elettrione. Ma la consorte divina, oltraggiata, approfittò del vincolo imposto da Zeus per dare inizio alla vendetta.
Era d’un balzo lasciò la vetta d’Olimpo,
rapida giunse ad Argo d’Acaia, dove sapeva,
ch’era la nobile sposa di Stènelo figlio di Perseo;
questa portava in grembo un caro figlio, era al settimo mese;
essa lo spinse alla luce benché fosse immaturo,
e fermò il parto di Alcmena, trattenne le Ilitie:
e lei stessa annunciandolo disse a Zeus Cronide:
“Zeus padre, candida folgore, ti metterò una parola nel cuore:
è già nato l’uomo nobile che regnerà sugli Argivi,
Euristeo, figlio di Stènelo Perseide,
tua stirpe: e non è indegno di regnare sugli Argivi”.
(Omero, Iliade, XIX, 114-124)
Fu così che Euristeo divenne il sovrano di Micene, mentre suo cugino Eracle non sarebbe stato… nessuno. Non solo, Era non si sentiva comunque soddisfatta del fallimento arrecato a Zeus: voleva eliminare per sempre e il prima possibile Eracle. Per questo, quando il bimbo aveva solo dieci mesi, inviò due serpenti affinché durante il sonno uccidessero lui e il fratello Ificle, nato il giorno dopo e figlio di Anfitrione. Fu in questa occasione che Eracle dimostrò la sua forza straordinaria e il suo disprezzo per il pericolo. L’episodio, per l’eccezionalità che lo caratterizza, è stato tramandato in versi e in prosa da quasi tutti gli autori antichi. La versione che proponiamo è del poeta greco ellenistico Teocrito vissuto nel III secolo a.C., il quale dedicò appositamente un idillio all'infanzia di Eracle:
Allorché a mezzanotte l’Orsa si volge verso il tramonto
di fronte al possente Orione, e questi mostra la grande spalla,
a quell’ora l’astuta Era due mostri orribili,
serpenti drizzatisi nelle fosche spire,
lanciò verso l’ampia soglia,
presso gli stipiti incassati delle porte del palazzo,
minacciando che avrebbe fatto mangiare il piccolo Eracle.
Ed essi, snodandosi, entrambi rotolavano a terra
i ventri avidi di sangue; dai loro occhi un fuoco cattivo brillava,
quando, vibrando la lingua, giunsero vicino ai bambini,
proprio allora si svegliarono – poiché Zeus sa tutto –
i cari figli di Alcmena, e nel palazzo si fece luce.
(Teocrito, Idilli, XXIV Eraclino, 11-22)
Ificle urlò terrorizzato, ma Eracle…
Li teneva stretti fra le mani,
ché li aveva legati entrambi in un potente nodo,
serrandoli col pugno alla gola,
dov’è il veleno fatale dei funesti serpenti, odioso perfino agli dèi.
Questi a loro volta con le spire
si avvolsero attorno al bambino nato tardi, lattante,
che mai pianse alla nutrice; poi di nuovo allentavano le spine dorsali,
quando si stancavano, nel tentativo di liberarsi dal nodo ineluttabile.
(Teocrito, Idilli, XXIV Eraclino, 26-33)
Accorsero i genitori, svegliati dalle urla di Ificle, e la scena che si trovarono davanti fu incredibile:
[Eracle] al padre Anfitrione mostrava i rettili,
e saltava in alto per la gioia infantile,
e ridendo depose innanzi ai piedi di suo padre
i terribili mostri intorpiditi dalla morte.
(Teocrito, Idilli, XXIV Eraclino, 56-59)
Eracle crebbe, ma insieme a lui crebbe anche l’odio di Era. Giunto in età da matrimonio, sposò Megara, figlia del re di Tebe, e da lei ebbe tre figli. La dea si spinse oltre ogni limite e condusse alla pazzia il suo rivale affinché sterminasse la sua famiglia:
Evocherò la dea della discordia, seppellita nella densa nebbia, oltre il luogo d’esilio dei malvagi,
protetta dall’enorme grotta del monte che impedisce il ritorno;
costringerò a venir fuori dal profondo regno di Dite
tutto quel che vi è rimasto: verranno l’odioso Delitto,
l’Empietà feroce che lecca il sangue dei suoi,
l’Errore, e la Pazzia sempre armata contro se stessa.
Ecco, ecco lo strumento del mio rancore.
(Seneca, La follia di Ercole, 93-99)
Così accadde. Nel palazzo reale di Tebe, Eracle scambiò Megara e i tre bambini per la moglie e i figli del cugino Euristeo, il prediletto di Era. Inutili i tentativi di restituirgli la lucidità, inascoltate le suppliche di pietà dei familiari: le frecce schizzarono dall’arco e si conficcarono nel petto delle persone più amate. Avrebbe subìto la stessa sorte anche Anfitrione, con loro in quel momento, ma Atena impedì a Eracle di scoccare la freccia fatale colpendolo con una grossa pietra che lo fece svenire. Il risveglio fu atroce, una scena raccapricciante gli saturava la vista: le sue mani avevano fatto strage della sua famiglia.
Allora si condannò da se stesso all’esilio, venne purificato da Tespio, e poi si recò a Delfi, per chiedere al dio dove poter andare. Fu in quell’occasione che la Pizia per la prima volta si rivolse a lui chiamandolo Eracle – perché prima il suo nome era Alcide; e gli disse di stabilirsi a Tirinto, e di servire Euristeo per dodici anni, e di compiere le dieci imprese che gli sarebbero state imposte: quando le avesse terminate – gli disse – avrebbe ottenuto l’immortalità. Saputo questo, Eracle andò a Tirinto, e compì quanto Euristeo gli ordinò.
(Apollodoro, Biblioteca, II, 4-5)
La Pizia è la sacerdotessa di Apollo che profetizzava nel santuario di Delfi dedicato ad Apollo, mentre la città di Tirinto è nominata perché Euristeo, oltre a essere re di Micene, era anche il sovrano di Tirinto e di Argo. Questo dunque fu il motivo delle dodici fatiche (Apollodoro ne stabilisce dieci ma in realtà aggiunge le ultime due in seguito, dopo che Euristeo ne annullò altrettante); le fatiche si inseriscono così in un contesto di purificazione, mentre la servitù cui dovette sottoporsi Eracle per ben dodici anni, fu il modo con cui Era dimostrò a Zeus chi aveva l’ultima parola. Ci limitiamo ora semplicemente a elencare le fatiche perché un breve resoconto le banalizzerebbe, quando invece vivono di intense atmosfere e significati profondi. Queste le dodici imprese di Eracle:
I. Il leone di Nemea
II. L’idra di Lerna
III. La cerva di Cerinea
IV. Il cinghiale di Erimanto
V. Gli uccelli del lago Stinfalo
VI. Le stalle di Augia
VII. Le cavalle di Diomede
VIII. Il toro di Minosse
IX. La cintura di Ippolita
X. I buoi di Gerione
XI. I Pomi delle Esperidi
XII. Il cane di Ade
Durante il decennio in cui era schiavo di Euristeo, Eracle compì anche molte altre gesta. Viaggiò parecchio, sia per le prove imposte da Era, sia per delle guerre a cui era chiamato. Vide l’Oriente e l’Occidente. In quest’ultima direzione in particolare, dovette volgere per la decima fatica, che lo sfidava a portare in Grecia i buoi di Gerione, una creatura dal triplice corpo che abitava l’isola di Eritea, l’odierna Cadice, in Spagna. Lì si racconta che abbia eretto le sue colonne, altro motivo per cui l’eroe è conosciuto. Come scrive Diodoro Siculo, ci sono sostanzialmente due versioni circa l’innalzamento dei giganteschi pilastri cilindrici:
Eracle quando approdò ai promontori dei continenti di Libia e di Europa costeggianti l’Oceano, decise di porre queste colonne a ricordo della spedizione. Volendo realizzare un’opera memorabile presso l’Oceano dicono che arginasse per un lungo tratto entrambi i promontori che prima erano separati l’uno dall’altro da una grande distanza: Eracle restrinse il passaggio ad uno spazio angusto, affinché, una volta che fosse diventato poco profondo e stretto, ai grandi mostri marini fosse impossibile aprirsi un varco dall’Oceano nell’entroterra, e insieme, per la grandezza delle sue imprese, restasse memorabile la fama di chi le aveva edificate. Come dicono alcuni, al contrario entrambi i continenti erano riuniti insieme ed egli li divise, e il passaggio aperto fece mescolare l’Oceano al nostro mare [il Mediterraneo].
(Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 18)
Portate a compimento tutte le prove con successo – anche l’ultima dove gli fu addirittura richiesto di recarsi nel regno dei morti e di portare alla luce Cerbero, il cane a tre teste a guardia dell’oltretomba, che mai aveva visto il sole – Eracle fu per così dire “lasciato in pace”; ma per pochissimo tempo. Del resto come disse una volta suo padre Anfitrione:
La fine di una disgrazia non è che un passo verso la successiva.
E’ appena di ritorno, che un nuovo nemico si appronta;
prima di raggiungere la lieta dimora, a comando,
parte per un’altra guerra e non c’è un attimo di tregua,
non ci sono tempi vuoti,
tranne il momento in cui riceve il comando.
Lo perseguita sin dall’inizio l’ostile Giunone:
la sua infanzia è stata forse indenne?
Ha sconfitto mostri prima di saperli riconoscere.
(Seneca, La follia di Ercole, 208-216)
Gli accadde un giorno di uccidere il figlio del re d’Ecalia in un eccesso d’ira e di pentirsene come quando si trovò di fronte al massacro della sua famiglia. Proprio come allora desiderò espiare la sua colpa e questa volta l’oracolo di Delfi gli disse che avrebbe potuto essere purificato vendendosi come schiavo alla regina di Lidia, Onfale. Presso di lei avrebbe dovuto dimorare tre anni e sottomettersi in tutto e per tutto.
La regione della Lidia si trova sulle coste orientali della Grecia e, presso i greci d’occidente, i suoi abitanti non avevano buona reputazione; subendo l’influenza dei costumi orientali – per cui i re si agghindavano di numerosi gioielli d’oro e pietre preziose, si profumavano e si attorniavano di eunuchi – quella gente veniva considerata effeminata e molle. Le donne poi si diceva fossero rinomate come prostitute. Recarsi e vendersi come schiavo in un paese dove a capo dello Stato non c’era un re maschio ma una donna, creatura ritenuta debole, rappresentava un’offesa molto grande per un greco dell’ovest e per di più della tempra di Eracle.
I tre anni ai piedi di Onfale furono senza dubbio un’altra manovra di Era che, alle prove di coraggio, volle aggiungere quella dell’umiliazione. Desiderava vedere fino a che punto Eracle sarebbe stato capace di ubbidire e piegarsi.
L’ultima moglie di Ercole, Deianira, ricorda l’esperienza del marito in una lettera che gli scrisse prima di uccidersi:
Ricorderò una sola rivale, colpa recente, per la quale sono diventata matrigna di Lamo di Lidia. Il Meandro, che tanti giri fa nelle stesse contrade, che spesso capovolge il corso delle sue acque lente, ha visto collane pendere al collo di Ercole, quel collo per cui il cielo fu un peso leggero. Non ti sei vergognato di cingere d’oro le tue braccia robuste e di pietre preziose i tuoi maschi muscoli. Eppure vinto da queste braccia fu strangolato il leone di Nemea, le cui spoglie ornano la tua spalla sinistra. Tu hai osato ornare con la mitra i tuoi irsuti capelli: rami di pioppo bianco s’addicevano meglio alla capigliatura di Ercole. E tu non pensi che era indegno di Ercole fasciare le reni con la cintura meonia alla maniera di una fanciulla lasciva? (…) Si racconta che tra le fanciulle ioniche hai portato le ceste e hai avuto paura dei rimbrotti di una padrona. Non ti rifiuti, Alcide, di aver portato canestri leggeri con quella mano che era riuscita vincitrice in mille fatiche? Con il pollice robusto fili matasse di lana e rendi all’amante avvenente la stessa quantità che t’aveva assegnato! Ah, quante volte mentre attorcigliavi il filo sotto le tue ruvide dita le tue mani troppo energiche hanno spezzato i fusi! Ai piedi della tua padrona…
(Ovidio, Heroides, IX)
Se con Onfale, Ercole compromise la propria reputazione perdendo la dignità di uomo greco, grande onore invece ricevette durante uno degli anni in cui serviva Euristeo. Forse pochi lo sanno, ma Ercole fu il fondatore delle Olimpiadi.
In versi Pindaro dice:
Ed egli aveva istituito presso le sponde divine dell’Alfeo
il giudizio imparziale dei grandi giochi
e la festa che cade ogni quattro anni.
(Pindaro, Olimpica III, 21-23)
L’Alfeo è il fiume che scorre nel Peloponneso e che passa anche vicino alla città di Olimpia, nell’Elide. Diodoro Siculo afferma che i giochi furono istituiti al termine della VII fatica, quella del toro di Minosse:
Compiuta questa impresa [il toro di Minosse] istituì l’agone olimpico e per una tale riunione solenne scelse il luogo più bello, la pianura presso il fiume Alfeo, nella quale consacrò questo agone a Zeus Patrio. E come premio decise una corona, perché egli stesso aveva beneficato il genere umano senza nessuna ricompensa.
(Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 14)
La corona è fatta con rami d’ulivo intrecciati, lo stesso albero voluto dall’eroe perché proteggesse dal sole gli spettatori che si trovavano nel recinto sacro del santuario di Zeus di Olimpia. Egli prese gli ulivi nel lontano paese degli Iperborei, dove conobbe la pianta per la prima volta e ne fu rapito dalla sua bellezza:
Egli l’ottenne [l’ulivo] con la persuasione dal popolo degli Iperborei che venera Apollo.
Con cuore leale chiedeva per l’accogliente santuario di Zeus un albero
che potesse coprire con la sua ombra la folla di visitatori e dar corone per gli atleti valorosi.
(Pindaro, Olimpica III, 16-18)
Gli Iperborei erano il popolo che abitava letteralmente “oltre” (in greco hyper) le terre da cui soffiava “Borea”, il vento del nord. Queste terre erano le regioni montuose dove nasceva il Danubio (l’Istro). Per i Greci lì si trovava l’estremo settentrione.
Pindaro invece colloca la fondazione delle Olimpiadi durante la II fatica, quando Ercole insegue la cerva dalle corna d’oro, ma in entrambe le versioni, l'eroe giunge presso le gelide montagne dalla vegetazione paradossalmente mediterranea:
Inseguendola visitò anche la contrada che si trova al di là dei soffi del freddo Borea:
ivi ristette ed ammirò gli alberi. Un dolce desiderio lo prese di piantarli
intorno alla meta della pista cui girano intorno i carri per dodici volte.
Ed ora egli giunge propizio a questa festa
insieme ai gemelli divini di Leda dall’ampia cintura.
Ad essi Eracle, salendo l’Olimpo, affidò di sovrintendere a queste gare magnifiche
dove concorrono il valore degli uomini
e l’abile guida del carro lanciato alla corsa.
(Pindaro, Olimpica III, 31-38)
Ercole naturalmente partecipò ai giochi, avendoli lui stesso fondati, e fu vincitore in tutte le discipline in cui si cimentò. Ma la vittoria più difficile doveva ancora ottenerla: si trattava di vincere la sua stessa morte.
Negli anni che precedettero la sua fine, l’eroe viveva in Tessaglia nella città di Trachis, insieme alla sua ultima moglie, Deianira, una donna che aveva dovuto conquistare lottando contro un pretendente divino e avido di possedere la ragazza. Si trattava del dio-fiume Acheloo. Deianira ricorda così quei drammatici momenti e la salvezza per mano di Ercole:
Io, allora, stavo laggiù, a Aleurone, in casa, con mio padre Eneo,
e subito provai lancinante ribrezzo per il mio sposalizio.
Unica, tra le ragazze d’Etolia!
Pazzo di me era un fiume – attenta! – l’Acheloo.
Quello sollecitava mio padre, per me, e aveva tre facce.
Eccolo, toro che si staglia davanti, mi cerca;
poi occhi freddi di rettile snello, striato;
ora viso bovino, sopra stampo d’uomo
e dalla barba buia scrosciavano sgorghi, d’acqua di roccia.
Che spasimante, e proprio a me! L’attesa era atroce, amara.
Ogni volta, pregavo la morte, subito,
non volevo aspettare d’essere dentro, avvinta in quel letto.
Quanto tempo! Ma venne, finalmente, e mi fece felice, lui,
l’eroico, il figlio di Zeus e di Alcmena.
Piomba sull’altro, in sfida guerriera, e riscatta me, la sua donna!
(Sofocle, Trachinie, 7-21)
Deianira era dunque originaria dell’Etolia, ma insieme ad Eracle dovette trasferirsi in Tessaglia dopo che il marito si auto-esiliò per aver ucciso involontariamente il coppiere di suo suocero. Fu proprio nel viaggio verso la sua ultima dimora che si preparò la sua morte: la coppia, insieme al loro figlio Illo, dovette attraversare il fiume Eveno e…
Quando arrivarono al fiume Eveno trovarono il centauro Nesso, che stava sulla riva e traghettava i passanti dietro compenso: erano stati gli dèi, diceva, a dargli questo compito, proprio per la sua onestà. Eracle attraversò il fiume da solo, e per Deianira invece pagò Nesso perché la traghettasse sulla sua groppa. Ma mentre la trasportava, il centauro tentò di violentarla.
(Apollodoro, Biblioteca, II-7)
Allora Ercole…
già era arrivato sull’altra sponda e stava raccogliendo l’arco precedentemente scagliato,
quando sentì delle invocazioni –, vide Nesso che se la svignava
portandosi via colei che gli era stata affidata, e gridò:
“Dove t’illudi di poter scappare con quelle tue zampe, o bruto?
A te dico, Nesso biforme! Dammi retta, non soffiarmi cose che son mie!
(…)
Comunque, confida pure nelle tue risorse equine, ma non sfuggirai:
non con i piedi, con un tiro ti raggiungerò!”.
E confermò con i fatti le ultime parole: tirò una freccia, e trafisse la schiena al fuggiasco.
Il ferro a uncino rispuntò dal petto, e come venne estratto,
il sangue sprizzò via da entrambi i fori, misto al veleno infetto del mostro di Lerna.
Nesso raccolse questo sangue brontolando tra sé: “Non morrò senza vendicarmi!” .
(Ovidio, Metamorfosi, IX 118-131)
Proprio così. Nesso si vendicò ingannando Deianira; morente, con un filo di voce le sussurrò:
Figlia del vegliardo Eneo, del mio tragitto, se m’ascolti,
molto ti gioverai, perché sei l’ultima ch’io trasportai.
Se dalle mie ferite raccoglierai con le tue mani
il sangue coagulato,
nel punto in cui di bile nera bagnò lo strale
la creatura ripugnante che fu l’Idra di Lerna,
ti varrà da incantesimo per l’anima d’Eracle:
lui, qualunque donna veda,
non sarà mai che l’ami più di te.
(Sofocle, Trachinie, 569-577)
La giovane donna credette davvero che il sangue del centauro mescolato al veleno dell’Idra, la creatura uccisa nella seconda fatica, fosse un filtro d’amore ed eseguì quanto le era stato confidato dalla creatura biforme:
serbare il filtro sempre intatto dal fuoco,
indenne dagli ardenti raggi del sole in un recesso,
fino al tempo d’impiegarlo per un’unzione fresca.
(Sofocle, Trachinie, 685-687)
Deianira obbedì e per diversi anni in verità non ebbe mai bisogno del veleno; anzi se ne dimenticò. Ma un giorno, il suo uomo rientrò dall’ennesima guerra, vincitore come sempre lo era; tuttavia stavolta portava con sé un bottino che gli sarebbe stato fatale: una donna, la figlia del sovrano della terra d’Ecalia, appena sottomessa. Il suo nome era Iole ed Eracle la condusse a Trachis come sua nuova futura moglie. Deianira, saputo dal messaggero del marito che l’eroe era tornato avendo conquistato un paese e una sposa, divenne folle dalla gelosia. Come l’indole femminile vuole però, non lasciò trapelare i suoi sentimenti, anzi fece intendere che era felice che Eracle fosse tornato vincitore. Si era invece ricordata del filtro che tanto tempo prima il centauro le aveva regalato. Presa una tunica e cosparsala del veleno, la diede al messaggero Lica affinché la portasse a Eracle che stava offrendo sacrifici a Zeus sul monte Eta per ringraziarlo della vittoria. Lica eseguì l’ordine, Eracle indossò la veste ma… non appena il calore del fuoco sacrificale raggiunse la stoffa, avvenne la tragedia!
Il potente veleno cominciò a ribollire
e, sciolto dal calore delle fiamme,
scolò e si sparse dappertutto sulle sue membra.
Finché poté, egli represse i gemiti col suo ben noto coraggio.
Ma quando le sofferenze divennero intollerabili,
rovesciò gli altari e riempì delle sue urla l’Eta boscoso.
E subito tentò di strapparsi di dosso la veste micidiale:
nei punti dove la tirava, quella tirava la pelle e, cosa raccapricciante,
o restava attaccata al corpo malgrado gli sforzi di staccarla,
o gli sbrindellava le carni e gli metteva a nudo le enormi ossa.
E il sangue stridette come lama incandescente tuffata in una vasca gelida,
e bruciò all’ardore del veleno. E il male fu inarrestabile:
fuoco avido gli divorò i visceri e tutto il corpo grondò di sudore azzurrognolo,
tendini bruciati schioccarono.
(Ovidio, Metamorfosi, IX 161-174)
Per Eracle stavolta era giunta davvero la fine. In preda agli spasimi, poche cose riuscì a dire; ragionando ad alta voce, capì ciò che Zeus tempo addietro gli aveva predetto circa il suo destino:
Mi fu svelato da mio padre che nessun vivo mai m’avrebbe ucciso,
ma un morto, abitatore dell’Averno.
Ebbene, proprio secondo l’oracolo, quella fiera,
il Centauro, già defunto, me vivo ha ucciso.
E adesso svelerò vaticini recenti,
che s’accordano con quelli antichi coincidendo appieno.
Quando andai nella selva dei montani Selli,
che sulla nuda terra dormono, io li trascrissi:
dall’avita quercia fatidica li colsi, che mi disse come io,
per l’appunto in questo tempo ora presente,
avrei visto la fine dei travagli incombenti.
Sarei stato bene – pensavo.
Invece, di null’altro si trattava,
se non della mia morte,
ché non c’è più travaglio per i morti.
(Sofocle, Trachinie, 1159-1173)
E dopo aver fatto promettere al figlio Illo che, raggiunta la maggiore età, avrebbe sposato lui Iole…
salì sull’Eta (il monte di Trachis), costruì una pira, vi montò e comandò di darle fuoco. Nessuno però voleva farlo: e allora lo fece Peante, che passava di lì in cerca del suo gregge. Peante accese la pira, ed Eracle gli donò il suo arco.
(Apollodoro, Biblioteca, II -7)
Zeus che dall’alto lo osservava, si rivolse agli dèi, spaesati spettatori della crudele scena, e annunciò loro il compimento imminente di quel disegno divino che tanti anni prima l’invidia di una dea intaccò:
Colui che tutto ha vinto, vincerà i fuochi che vedete,
e non sentirà la potenza di Vulcano
che per la parte tratta dalla madre.
Ciò che egli ha tratto da me,
è eterno e immune e non conosce morte
e non c’è fiamma che possa distruggerlo.
Questa parte, come avrà ultimato la sua vicenda terrena,
io la accoglierò nelle regioni del cielo,
e confido che la mia decisione farà piacere agli dèi tutti (…)”.
Intanto, tutto ciò che era devastabile dalla fiamma,
Vulcano lo aveva distrutto.
Rimase solo l’immagine di Ercole, ma irriconoscibile,
senza più nulla di quel che poteva aver preso dalla madre;
serbava unicamente l’impronta di Giove.
E come il serpente, deposta con la pelle la vecchiaia,
rimbaldanzito torna tutto nuovo e smagliante di fresche squame,
così l’eroe di Tirinto, spogliato del corpo mortale,
rifiorì con la parte migliore del suo essere,
e cominciò a sembrare più grande,
e ad assumere un’aria maestosa e solenne, un aspetto venerando.
Il padre onnipotente, avvoltolo in una nuvola cava,
lo rapì e con un cocchio tirato da quattro cavalli
lo portò fra gli astri radiosi.
(Ovidio, Metamorfosi, IX 250-272)
L’Olimpo era finalmente realtà e un’ulteriore ricompensa era stata preparata per il salvatore di uomini e dèi; l’indovino Tiresia lo sapeva da tempo:
Eracle poi, in pace, per un tempo eterno, avrebbe avuto in sorte,
come splendida ricompensa per le sue dure fatiche,
una calma, inalterabile felicità nel palazzo degli dèi beati.
Qui, presso Zeus Cronide,di cui osserva l’augusta legge,
in un convito di nozze avrebbe ricevuto come sposa Ebe, fiore di giovinezza.
(Pindaro, Nemea I, 69-73)
Ebe era la figlia proprio della coppia sovrana Zeus-Era; dunque concedere la sua mano era il dono più alto che essi potessero dare. Ebe era la personificazione della Giovinezza, quella giovinezza che Eracle non poté mai vivere, e dimorava fra gli dèi come loro coppiera.
Ma secondo il cuore di Zeus mancava ancora qualcosa…
Dopo la sua apoteosi Zeus persuase Era ad adottare Eracle come figlio e a mostrargli benevolenza di madre per tutto il tempo futuro. Dicono che l’adozione avvenisse in questo modo: Era salì su di un letto, e attratto Eracle al proprio corpo lo fece cadere fino a terra attraverso i vestiti, imitando la vera nascita, cosa che a tutt’oggi fanno i barbari quando vogliono adottare un figlio.
(Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 39)
Questa fu la vita – una piccola parte – e la sorte di Eracle; e in suo onore allora concludiamo il nostro racconto con uno dei trentatré canti sopravvissuti dei poeti greci seguaci di Omero, canti che intonavano per le strade, ai banchetti o durante feste private:
Canterò Eracle, figlio di Zeus, il più forte
dei terrestri, che Alcmena generò nell'ampia Tebe,
dopo essersi unita al Cronide dalle nere nubi.
Dapprima, errando sulla terra infinita e sul mare
agli ordini del re Euristeo, Eracle compì
molte imprese terribili, e patì molti mali;
ma ora, nella bella casa dell'Olimpo nevoso,
vive sereno, e ha in sposa Ebe dalle belle caviglie.
Salve, signore, figlio di Zeus: dammi valore e ricchezza.
(Inni Omerici, XV)
Come ben ci si può aspettare l’arte, letteralmente, trabocca di opere dedicate all’eroe. Presso gli antichi greci – ma anche romani – Eracle fu l’eroe più venerato, centinaia sono le scene delle sue gesta dipinte sui vasi in ceramica; numerosissime le statue e statuette che lo ritraggono da solo o durante le imprese, e altrettanto dicasi per le decorazioni scultoree sui templi. Durante il Rinascimento, la figura dell’eroe tornò a far parlare di sé sulle tele dipinte a olio da illustri e meno illustri pittori, nonché in statue marmoree.
La rassegna che proponiamo è, inutile dirlo, solo un piccolissimo squarcio, che non ha assolutamente le pretese di essere esaustivo, sulla prepotente mole di opere dedicate all’eroe. Cominciando dalla ceramica attica e seguendo la vita di Eracle in ordine cronologico, possiamo vederlo su questo recipiente funerario della metà del IV secolo a.C., chiamato lekythos, dipinto a figure rosse, mentre è allattato da Era, la dea che tanto lo odiava. E' attribuito al cosiddetto Pittore del Lattante.
Lekythos apula a figure rosse attribuita al Pittore del Lattante con Eracle allattato da Era addormentata (British Museum di Londra, ca. 360-350 a.C.).
Immagine: www.theoi.com
Diodoro Siculo infatti racconta che:
Alcmena partorì, e temendo la gelosia di Era espose il neonato nel luogo che ora da lui si chiama “campo di Eracle”. Proprio a quel tempo Atena gli si avvicinò in compagnia di Era, e presa da ammirazione per la figura del bambino, persuase Era a porgergli il seno. Il fanciullo tirò la mammella con troppa violenza per la sua età, ed Era colpita dal dolore scagliò via il neonato; ma Atena lo portò da sua madre, e le ordinò di allevarlo.
(Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 9)
Il vaso si trova al British Museum di Londra e proviene da Anzi, in Puglia.
Fra il 1575 e il 1580, il pittore Jacopo Tintoretto dipinse lo stesso episodio nel suo quadro intitolato Origine della Via Lattea.
Il dipinto di Jacopo Tintoretto Origine della Via Lattea che illustra come il mito ha spiegato la scia lattiginosa dei cieli notturni. Si tratta del latte fuoriuscito dalla mammella di Era quando d'un tratto strappò dal suo seno Eracle che succhiava con troppo vigore (National Gallery di Londra, 1575).
La mitologia greca infatti considerava la striscia lattiginosa di stelle che attraversa i cieli estivi dell’emisfero boreale, come il latte schizzato dalla mammella di Era quando improvvisamente allontanò Eracle che succhiava il seno con troppa forza. In una variante del mito infatti, incredibilmente fu Era ad allattarlo. La dea in realtà era ignara del gesto perché il bimbo fu accostato al suo seno da Zeus che approfittò di un momento in cui la consorte dormiva. Dalla sua mammella si possono vedere le stelle sprizzare verso il cielo e dare così origine alla Via Lattea. Nel quadro si vedono anche l’aquila, simbolo di Zeus, e due pavoni, gli uccelli sacri a Era. Il dipinto si trova alla National Gallery di Londra.
Al Louvre invece si trova uno stamnos, recipiente per il vino, a figure rosse degli inizi del V secolo a.C., proveniente dalla città etrusca di Vulci, che mostra la prima impresa di Eracle, quando strozzò i due serpenti inviati da Era:
Non appena uscito dia fianchi materni,
dopo il travaglio del parto,
e venuto alla gran luce del giorno insieme al fratello gemello,
il figlio di Zeus non sfuggì alla vista di Era,
la dea dal trono d’oro, mentre veniva avvolto nelle fasce colore di croco.
Allora la regina degli dèi, adirata nel cuore,
subito mandò due serpenti che per le porte aperte
penetrarono nel fondo della grande stanza,
impazienti di portare sui bimbi le loro pronte mascelle.
Ma il piccolo levò contro di loro il capo
e intraprese la sua prima lotta, con le due mani invincibili
afferrando per il collo ciascun serpente.
La durata della presa fece esalare l’anima di quei corpi immani.
(Pindaro, Nemea I, 35-47)
Stamnos attico a figure rosse proveniente dalla città etrusca di Vulci e attribuito al Pittore di Berlino con Eracle bambino che strozza i serpenti inviati da Era (Louvre, ca. 480-470 a.C.).
Immagine: http://www.artic.edu/aic/resources/resource/2659
Sul vaso è ben riconoscibile il fratello Ificle, che la madre Alcmena prende fra le sue braccia per rassicurarlo, affiancata dal marito Anfitrione. Era invece si trova a sinistra mentre dà ordine ai serpenti di mordere i due bambini.
Eracle che strozza i serpenti lo possiamo vedere anche in una scultura conservata ai Musei Capitolini di Roma. Questa statua in marmo, opera di un autore romano anonimo del II secolo d.C., interpreta molto bene a livello espressivo il coraggio del bambino, che non mostra alcuna soggezione verso i pericolosi rettili.
Statua romana in marmo bianco di autore sconosciuto appartenente alla collezione Albani con il piccolo Eracle che uccide i serpenti inviati da Era. (Musei Capitolini di Roma, II secolo d.C.).
Passando invece a Eracle adulto, una statua che sicuramente a tutti è capitato di vedere – non necessariamente dal vero – è l’Ercole Farnese custodito al Museo Archeologico di Napoli. Questa scultura è gigantesca – 3,10 metri – e fu ritrovata nelle terme romane di Caracalla durante il XVI secolo, sotto il pontificato di Paolo III Farnese, che la volle nella sua collezione. Da qui il nome di Ercole Farnese. La statua risale all’età Severiana, quando l’imperatore Caracalla, il cui vero nome era Marco Aurelio Severo Antonino Bassiano, fece costruire le terme imperiali più grandiose della storia di Roma, tra il 212 e il 217 d.C. Si tratta della copia romana di un originale bronzeo opera di Lisippo, uno degli scultori più importanti della Grecia della fine del IV secolo a.C.
L'Ercole Farnese, statua colossale alta 3,17 m di Ercole raffigurato a riposo e con in mano i pomi delle Esperidi. Si tratta di una copia romana da un originale dello scultore ellenistico Lisippo, lo scultore di Alessandro Magno (Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ca. 216 d.C.).
Immagine: 2011, Marie-Lan Nguyen, https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Herakles_Farnese_MAN_Napoli_Inv6001_n01.jpg
La figura si erge massiccia, l’eroe è “pesante” come è inevitabile di fronte a una forza muscolare tanto dirompente. Tuttavia questa pesantezza corporea diviene anche lo strumento con cui Lisippo volle evidenziare una profonda stanchezza dell’eroe. L’Ercole Farnese è anche chiamato Ercole in riposo; egli infatti si appoggia alla sua inseparabile clava per una tregua dopo le dodici fatiche. Nella mano che tiene dietro la schiena, stringe i pomi del giardino delle Esperidi (XI fatica) che gli garantiranno l’immortalità. Il disegno di Hendrick Goltzius, risalente all’inizio del XVII secolo, mostra il retro della statua.
Incisione dell'olandese Hendrick Goltzius del retro dell'Ercole Farnese (Metropolitan Museum of New York, 1617).
Immaginr: http://www.metmuseum.org/toah/works-of-art/17.37.59/
Passiamo infine all’ultimo giorno di vita di Eracle, da quando indossò la tunica avvelenata all’apoteosi nell’Olimpo.
Antonio Canova scolpì Ercole nel momento in cui si accingeva a scagliare Lica con tutta la sua forza contro una roccia. Lica era il messaggero che gli consegnò la veste intrisa del veleno del centauro Nesso, a sua volta ricevuta dalla moglie Deianira.
Chiese allora in un grido all’infelice Lica,
che di quel male da te (Deianira) fatto era innocente,
che diavoleria l’avesse spinto a portargli quel peplo.
Quel poverino non sapeva nulla,
e rispose che il dono era soltanto tuo,
tale e quale era stato mandato. Udito questo,
mentre un lancinante spasmo lo prende nei polmoni,
agguanta lui per un piede,
dove la giuntura si flette,
e contro una roccia sporgente,
bagnata intorno dal mare, lo scaglia.
Bianco schizza il cervello tra i capelli,
mezzo cranio si sparge, e sangue insieme.
(Sofocle, Trachinie, 772-784)
Ercole e Lica di Antonio Canova (Galleria nazionale d'arte moderna di Roma, 1795).
La violenza e il dolore che sta provando Eracle toccano la massima enfasi. Sul torace è visibile la veste letale che entra incandescente nella carne; Lica è terrorizzato, urla con quanta voce possiede e si aggrappa inutilmente alla pelle del leone che Ercole usava come indumento dopo avere ucciso la fiera nella I fatica. La statua fu scolpita da Canova fra il 1795 e il 1815, e si trova nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
E alla fine l’apoteosi, la pace, la ricompensa per una vita passata a combattere, conquistare, servire. In questa brocca per il vino, detta pelike, di tipo attico e a figure rosse, ritrovata a Vulci e risalente alla fine del V secolo a.C., Ercole è in piedi al fianco di Atena che sul suo cocchio trainato da quattro cavalli lo conduce all’Olimpo:
La terra è soggiogata, i mari in tempesta si sono sottomessi,
il regno infernale ha conosciuto la mia violenza:
resta ancora indenne il cielo, fatica degna di Ercole.
Mi innalzerò verso gli alti spazi del firmamento eccelso;
l’etere deve essere raggiunto: mio padre mi promette le stelle.
(Seneca, La follia di Ercole, 955-959)
Pelike attica a figure rosse proveniente da Vulci e attribuita al Pittore di Cadmo con Eracle condotto all'Olimpo da Atena (Antikensammlungen und Glyptothek di Monaco, ca. 410 a.C.).
In basso, accanto al satiro con la clava, vi è la pira da cui Ercole è asceso e nella quale è riconoscibile il suo busto arso, simbolo del suo corpo mortale. Il vaso è attribuito al cosiddetto Pittore di Cadmo ed è custodito al museo Staatliche Antikensammlungen di Monaco.
E dello stesso periodo della pelike di Vulci è il cratere attico a figure rosse rinvenuto a Napoli e ora al Louvre. Eracle seduto in pace davanti al suo tempio, si volge verso Atena, alle sue spalle, per ringraziarla di tutte le volte che è andata in suo soccorso, e per averlo appena accompagnato nella dimora degli dèi. La dea lo guarda, fiera di lui, appoggiata allo scudo. Finalmente le prove sono terminate.
Apoteosi di Ercole sul cratere attico a figure rosse del cosiddetto Pittore del Louvre (Louvre, 400-375 a.C.).
Immagine: 2008, Marie-Lan Nguyen, https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Apotheosis_of_Herakles_Louvre_G508.jpg
Per finire la tavola uranografica di Johanne Hevelius del 1690 (a inizio pagina) ci rappresenta l'eroe sotto forma di costellazione, inginocchiato come vuole la tradizione astronomica e capovolto come si presenta in luglio quando culmina.