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BILANCIA
Libra, Librae
Lib
La costellazione della Bilancia nell'Uranographia di Hevelius (1690).
Immagine: http://www.atlascoelestis.com
Quella che si illumina nelle notti primaverili ed estive non è una bilancia comune. Non pesa infatti i corpi, ma è tarata per pesare qualcosa di ben più importante: il destino. Se mai vi capitasse di salirvi, sappiate che state salendo sulla Bilancia d’Oro di Zeus, opera di Efesto, il dio fabbro, una bilancia fatale, che può rivelarsi preziosa o maledetta, perché su di essa sapreste se siete destinati a essere dei vincenti o dei perdenti.
Due furono le volte che il signore dell’Olimpo la usò. Entrambe le volte fu durante la luttuosa guerra di Troia, giunta ormai al decimo e ultimo anno.
La guerra, com’è noto, si scatenò dopo che Paride, principe di Troia, rapì Elena di Sparta, la donna più bella, moglie del re Menelao, fratello quest’ultimo di Agamennone, signore della cittadella di Micene, a quel tempo il più potente fra i capi greci.
Il riscatto di Elena fu senz’altro il pretesto per attaccare quella che era una città estremamente ricca, grazie alla sua posizione strategica nei pressi dello stretto dei Dardanelli. Da lì infatti, Ilio, altro nome della città di Troia, poteva controllare i traffici dei Greci occidentali verso il Mar Nero; conquistarla significava esercitare un potere di tipo doganale e quindi arricchirsi grazie ai continui transiti di navi.
Gli abitanti di Ilio erano gente pacifica, rispetto ai rissosi Achei capitanati da Agamennone. Ma la loro mitezza non valse a far prevalere la pace, che anzi non arrivò se non dopo dieci lunghissimi e terribili anni di sangue, e solo in seguito all’incendio della città e a un massacro selvaggio di tutti i suoi cittadini da parte dei Greci d’Occidente.
Era dunque il decimo anno di guerra e, dopo vari scontri a cui presero parte accanto ai guerrieri gli dèi stessi, Zeus ordinò alle divinità di abbandonare il campo e lasciare che le sorti fossero opera unicamente dei due eserciti. Ma entrambe le armate erano forti e tenaci, tanto che né gli Achei né i Troiani erano in grado di aggiudicarsi la mossa decisiva.
Finché fu mattino e il giorno saliva,
sempre i dardi dalle due parti colpivano, cadeva la gente;
ma quando il sole raggiunse il mezzo del cielo,
allora il padre agganciò la bilancia d’oro:
e due Chere vi pose di morte lungo strazio,
dei Teucri domatori di cavalli e degli Argivi chitoni di bronzo;
la tenne sospesa pel mezzo; precipitò il giorno fatale degli Achei.
Le Chere degli Achei verso la terra nutrice di molti
piombarono, quelle dei Teucri salirono al cielo vasto.
Dall’Ida forte allora tuonò, e fiammeggiante
lampo scagliò fra l’esercito acheo; essi a vederlo
restarono allibiti, li prese tutti verde terrore.
(Omero, Iliade, VIII, 66-77)
Con questo chiaro messaggio che senza l’intervento divino nulla è possibile all’uomo, dovette dunque intromettersi Zeus, il quale stava osservando la battaglia dal monte Ida, nei pressi di Troia. Lo fece servendosi appunto della bilancia e pose, in rappresentanza dei due eserciti, una Chera su ciascun piatto, l’una degli Argivi, gli Achei, l’altra dei Teucri, i Troiani.
Le Chere erano divinità funeste, figlie della Notte, personificazioni della morte. La Chera più “pesante”, cioè il destino più rovinoso, avrebbe significato la sconfitta del popolo che rappresentava: in questa prima pesatura, toccava agli Achei essere vinti, mentre la Chera dei Troiani non aveva quasi peso, segno che non vi era morte per loro e il loro piatto trionfava alto. E così, quel giorno, la vittoria fu dell’esercito di Ilio.
Ma fu la seconda pesatura di Zeus quella decisiva per l’esito della guerra. Stavolta non le Chere degli Argivi e dei Troiani salirono sui piatti, ma quelle di due uomini, i due più valorosi guerrieri che la mitologia ricordi: si trattava delle Chere di Achille, principe dei Mirmidoni, alleato di Agamennone, e di Ettore, figlio di Priamo, il re di Troia.
Era il giorno fatale, quello che avrebbe deciso la morte di uno di loro e di conseguenza la vittoria dei Greci o dei Troiani. A differenza della prima volta però, Zeus fece tornare in campo gli dèi lasciandoli liberi di schierarsi come preferissero: dalla parte degli Achei si schierarono così Era, Atena, Poseidone, Ermes ed Efesto, mentre dalla parte dei Troiani combatterono Ares, Apollo e Artemide. La proverbiale ira di Achille per la morte del cugino Patroclo avvenuta per mano di Ettore, divenne quel giorno così indomabile che era impossibile ferirlo mortalmente ed egli, come una furia, fece strage di Troiani nell’attesa di scontrarsi con l’unico nemico che desiderasse uccidere: Ettore.
L’esercito avversario di fronte a tanta ferocia, si mise in fuga rientrando nella cittadella; le porte Scee della città di Troia vennero però chiuse prima che il principe Ettore le varcasse insieme agli altri guerrieri, e così, solo, si trovò faccia a faccia con Achille. Ettore, guerriero valoroso, ma non di indole bellicosa, fu colto dalla paura. Scappò correndo attorno alle mura della città, inseguito senza tregua da Achille, assetato del suo sangue.
Così essi girarono intorno alla rocca di Priamo tre volte
con rapidi piedi: tutti gli dèi li guardavano.
(Omero, Iliade, XXII, 165-166)
Come nell’episodio precedente, gli dèi sono di nuovo assenti: prima per volere di Zeus, adesso per volontà propria, quasi temessero anch'essi l’ira di Achille. Ma anche in questo caso, nulla è possibile all’uomo senza l’intervento divino, ed ecco di nuovo Zeus afferrare la bilancia del destino:
Ma quando arrivarono la quarta volta alle fonti,
allora Zeus, agganciò la bilancia d’oro,
le due Chere di morte lunghi strazi vi pose,
quella d’Achille e quella d’Ettore domatore di cavalli,
la tenne sospesa pel mezzo: d’Ettore precipitò il giorno fatale
e finì giù nell’Ade; l’abbandonò allora Apollo.
(Omero, Iliade, XXII, 208-213)
Il destino di Ettore era ormai deciso. Con indosso l’armatura che aveva strappato a Patroclo il giorno in cui lo ammazzò, Ettore venne trafitto nel collo dalla lancia di Achille. Queste furono le sue ultime parole:
“Va’, ti conosco guardandoti! Io non potevo
persuaderti, no certo, ché in petto hai un cuore di ferro.
Bada però, ch’io non ti sia causa dell’ira dei numi,
quel giorno che Paride e Febo Apollo con lui
t’uccideranno, quantunque gagliardo, sopra le Scee”.
Mentre diceva così, l’avvolse la morte:
la vita volò via dalle membra e scese nell’Ade,
piangendo il suo destino, lasciando la giovinezza e il vigore.
(Omero, Iliade, XXII, 356-363)
Così dunque si preparava Ilio a cadere nelle mani spietate dei Greci, lontani da dieci anni dalle loro famiglie, pronti a qualsiasi cosa pur di mettere la parola fine a quella città. Era circa il 1174 a.C. quando Troia cadde per sempre, e quanto è scampato al fuoco che la divorò, è visibile sulla piccola collina di Hissarlik, in Turchia, che, ormai quasi anonima, custodisce le gesta dei guerrieri leggendari che per dieci anni si batterono alle sue porte, nonché la testimonianza storica della guerra delle guerre: l’Iliade.