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VERGINE
Virgo, Virginis
Vir
La costellazione della Vergine nell'Uranographia di Hevelius (1690).
Immagine: http://www.atlascoelestis.com
Diverse sono le figure femminili che gli antichi associarono alla costellazione della Vergine.
Secondo il poeta Esiodo e il mitografo Arato, si trattava di Dike, la dea della Giustizia, la quale inizialmente dimorava insieme agli uomini durante l’età dell’oro, quando a governare le sedi celesti non era Zeus ma suo padre Crono, il divoratore dei suoi figli.
In quei tempi, gli uomini non dichiaravano guerra alle nazioni straniere, né alcuno conosceva l’uso della navigazione, ma passavano la vita a coltivare i campi.
(Hygino, Poeticon Astronomicon)
O, addirittura come racconta Esiodo:
Tutti i beni erano per loro, la fertile terra dava spontaneamente molti e copiosi frutti ed essi tranquilli e contenti si godevano i loro beni, tra molte gioie.
(Esiodo, Le Opere e i Giorni, 116-118)
Ma quando quella stirpe si estinse, generazioni sempre più corrotte vennero al mondo. Fu la volta dell’età dell’argento con le sue creature stolte e incuranti degli dèi, dopodiché toccò all’età del bronzo, guerriera e prepotente:
A questi umani stavano a cuore le opere luttuose e le violenze di Ares, né mangiavano pane, bensì avevano il cuore di ferro e senza paura.
(Esiodo, Le Opere e i Giorni, 145-147)
Perduta per sempre l’innocenza dell’età dell’oro, Dike abitò sempre meno sulla terra e, all’avvento della razza del bronzo, non sopportò oltre l’indole scellerata e corrotta degli uomini. Decise così di andare a dimorare fra le stelle, l’unico posto dove avrebbe potuto conservare la sua purezza. E la vergine né è per definizione l’emblema.
Altre fonti hanno visto nella costellazione la Fortuna, oppure Erigone, figlia di Icario, o ancora Parthénos, figlia di Apollo e Crisotemi.
Se osserviamo però le cosiddette uranografie, dal greco ouranos, cielo, e graphè, segno, ossia le mappe celesti raffiguranti la disposizione delle stelle accompagnata dalle figure mitiche che le rivestono, vediamo quasi sempre un’altra donna personificare la Vergine.
L’uranografia di Hevelius (a inizio pagina) risalente al 1690 ne è un esempio, ma molti altri cartografi del firmamento hanno riprodotto lo stesso ritratto.
Partendo da alcune delle tavole più antiche, possiamo vedere così la costellazione della Vergine ispirata al Poeticon Astronomicon di Hygino, il bibliotecario di Augusto, o ai Phaenomena del poeta greco Arato di Soli, entrambe pubblicate nel 1570; e ancora nelle rappresentazioni degli astronomi Johann Bayer del 1603, John Flamsteed del 1753, Johann Bode del 1801 o Alexander Jamieson del 1822).
L’attributo comune a tutte le rappresentazioni è la presenza di un bel fascio di spighe di grano che la donna stringe nella mano destra – o sinistra nel caso di Hevelius e Arato, dove la figura è di spalle a significare che l’osservatore è stato immaginato al di fuori della sfera celeste – fascio sul quale non a caso è stata appuntata la stella Spica che significa spiga. Quella donna è Demetra, una dea dunque, la dea delle messi, alla quale erano legate le sorti del raccolto, fonte primaria del sostentamento dell’uomo. E’ proprio di Demetra, Cerere per i Romani, che raccontiamo volgendoci alla costellazione della Vergine.
Presso gli Antichi Greci, Demetra era una delle divinità più onorate – talvolta seconda solo all’onnipotente Zeus – nonché rispettate per via del potere assoluto che deteneva sulla campagna, elemento fondante per la sussistenza dell’uomo.
Il poeta Esiodo, vissuto nell’VIII secolo a.C., raccomanda a suo fratello Perse, che trascorre la vita oziando, di dedicarsi invece ai lavori che gli dèi immortali hanno prescritto agli uomini, e in particolare di osservare così la legge dei campi:
semina nudo, nudo ara e nudo mieti, se vuoi a suo tempo compiere tutti i lavori di Demetra affinché tutto cresca a suo tempo, né tu in seguito, indigente debba mendicare per le case altrui senza nulla ottenere.
(Esiodo, Le Opere e i Giorni, 391-395)
Tanto che la spiga di Demetra è considerata sacra:
Prega Zeus Ctonio e la veneranda Demetra affinché, non appena matura, sia grave la sacra spiga di Demetra.
(Esiodo, Le Opere e i Giorni, 465-466)
Si è facilmente portati a immaginare che il buon esito di una semina fosse il riconoscimento della dea per gli sforzi compiuti dal contadino e che, al contrario, una infruttuosa annata fosse dovuta a una o più mancanze del coltivatore in termini di appropriata dedizione al lavoro dei campi, o di onori magari non degnamente riservati alla divinità. Sicuramente era così, ma a tutto ciò un motivo ben circoscritto e su cui tutti i Greci erano stati istruiti, legava in modo unico a Demetra questi uomini dediti alla terra. E la ragione consisteva nella dolorosa vicenda che aveva coinvolto personalmente la dea e che cambiò per sempre il suo animo: si trattava del rapimento della figlia Persèfone, Proserpina per i Romani, da parte di Ade, il signore dell’oltretomba.
Da questo avvenimento e soprattutto dal successivo decorso, la dea stessa istituì i cosiddetti Sacri Misteri (in greco ièron òrghia), più conosciuti come Misteri Eleusini, dal nome della cittadina di Eleusi situato a una ventina di chilometri da Atene. Ripercorriamo allora, attraverso la storia di Demetra e Persefone, le Demetriache, un’antichissima cerimonia religiosa con lo scopo di assicurare la fecondità della terra alla vigilia della sua preparazione.
La testimonianza che più ampiamente descrive il mito di madre e figlia, proviene dal secondo Inno Omerico, uno dei trentatré componimenti poetico-religiosi che ci sono pervenuti e che fungevano da canti di avviamento (in greco prooimia, ossia proemi) alle competizioni rapsodiche che si celebravano nell’ambito di feste religiose.
L’Inno a Demetra, composto probabilmente nel VI secolo a.C., consiste di 495 versi e veniva eseguito proprio durante i Misteri Eleusini. E’ una preghiera cantata. E molti passi sono singoli momenti del rituale.
Con il mito di Demetra e Persefone, abbiamo a che fare con una storia carica di simboli, e anche di parole greche che ci fanno scoprire il significato originariamente sacro di vocaboli moderni talvolta associati ad azioni turpi.
Si pensi per esempio alla versione greca ièron òrghia tradotta con sacri misteri: i misteri erano orghià, per noi orge, una parola che oggi indica eccesso, azioni scandalose, ma che in origine consisteva in un rituale sì carnale, come vedremo, ma sacro. Nulla vi era di perverso in quei gesti. L’accezione negativa moderna è dovuta al fatto che essi furono ripetuti quando ormai l’Antica Grecia era tramontata, la religione invalidata e, di conseguenza, quei gesti furono ripetuti da persone qualsiasi in contesti completamente estranei e svincolati da quello religioso in cui erano sorti. E ovviamente non potevano che essere deplorevoli e peccaminosi.
Bisogna sapere che nel mese di boedromione, grossomodo settembre-ottobre nel nostro calendario, gli abitanti dell’Attica compivano una lunga processione che li portava da Atene ad Eleusi, un piccolo borgo dal quale era possibile vedere l’isola di Salamina, e distante circa venti chilometri da Atene.
Guidati dal sacerdote-capo di Demetra, lo ierofante, dovevano riportare nel tempio di Eleusi i cosiddetti sacri oggetti (tà ierá), che il 14 dello stesso mese erano stati trasferiti nell’Eleusinion di Atene.
Insieme alla popolazione, svolgevano un ruolo fondamentale i cosiddetti mystai, i misti, ossia gli aspiranti all’iniziazione, davanti ai quali lo ierofante mostrava i sacri oggetti e svolgeva con loro i sacri riti, riti attorno ai quali Demetra si raccomandò di serbare l’assoluto silenzio, pena il reato di empietà.
Tant'è che nemmeno noi oggi sappiamo con certezza in cosa consistevano. Le nostre sono solo supposizioni, probabilmente verosimili, ma nessuno degli Antichi Greci ha osato lasciare una testimonianza scritta che descriva cosa si faceva nel Telesterion, la cella del santuario dove venivano custoditi e riportati gli oggetti. Ed ecco un’altra parola antica che ci guida all’apprendimento di una moderna: mistero.
Un mistero è un segreto, o un enigma, o un dogma o ancora una cosa incomprensibile: sono tutti attributi che dobbiamo ricondurre a quegli antichi uomini chiamati mystai, gli iniziati, che assolutamente non dovevano riferire ad alcuno l’esperienza spirituale, mistica, a cui avevano preso parte. Doveva restare un segreto, un mistero, una conoscenza cioè dei misti.
Tutto ebbe inizio quando Persefone stava raccogliendo fiori nella pianura di Nisa, località ritenuta ai confini del mondo. E proprio con la raccolta dei fiori avremmo visto iniziare le Celebrazioni Demetriache e udito la voce del cantore che accompagnava i fedeli con la sua lira…
Comincio a cantare Demetra dai bei capelli, dea venerabile,
e la sua figliola dalle caviglie sottili, che Adoneo
rapì – glielo concesse Zeus onniveggente, signore del tuono,
ingannando Demetra dalla spada d’oro, dea delle splendide messi –
mentre giocava insieme alle floride figlie di Oceano
e coglieva fiori (le rose e il croco e le belle viole)
su un morbido prato. Coglieva le iris e il giacinto, e anche
il narciso – insidia per la tenera fanciulla – che la Terra generò
su richiesta di Zeus, per compiacere il signore infernale:
straordinario fiore splendente, prodigiosa visione per tutti
quel giorno, sia per gli dèi immortali che per gli uomini mortali.
(Inno a Demetra, 1-11)
Il narciso fu per la fanciulla la trappola infernale. A pensarci bene forse ci si poteva insospettire che proprio quel fiore fosse stato partorito dalla terra, superiore a tutti gli altri in quanto a magnificenza; che fosse stato per così dire, abbellito appositamente per attrarre. Il narciso infatti ha la sua etimologia nella parola greca nàrke, letteralmente torpore, ed è associabile quindi al sonno e da ultimo alla morte. I narcotici alludono proprio all’effetto sonnifero che procurano. Cogliere il narciso significava quindi entrare in contatto con la dimensione dove la vita è assente, non c’è più, in altre parole col regno dei morti.
E infatti, non appena Persefone strappa il fiore,
[…] l’ampia terra si aprì
nella pianura di Nisa, e ne uscì con i suoi cavalli immortali
il signore che ha molti nomi e molti sudditi, figlio di Crono.
(Inno a Demetra, 16-18)
Quel signore è Ade, tradotto nel proemio con Aidoneo.
Il giorno in cui Zeus spartì i tre regni coi suoi fratelli Poseidone e Ade, quest'ultimo aveva ricevuto in sorte quello di cui tutti gli dèi avevano avversione: Zeus si scelse il cielo, a Poseidone toccarono le acque, mentre ad Aidoneo restò il mondo sotterraneo dei morti. E se c’è una cosa che accomuna tutti gli dèi sia nel bene che nel male, è proprio la vitalità, il richiamo alla vita. La vita appassionata ha sempre corso in loro e Aidoneo, relegato negli abissi della terra con esseri ridotti a eterei spiriti, non avrebbe potuto sopportare per l’eternità l’assenza della vita. Anzi, a pensarci, il suo desiderio di toccare di nuovo la vita era divenuto così importante da desiderare colei che più di tutte la possedeva: la figlia di Demetra, la figlia primogenita della signora della fertilità, colei che assicurava proprio il perpetuarsi della vita.
E allora si rivolse a quel suo fratello che tanto tempo prima gli aveva destinato l’infelice luogo, e gli chiese di poter avere Persefone in sposa. Zeus dopotutto come avrebbe potuto rifiutarglielo? Persefone colse il narciso, si contaminò di morte, il suolo si aprì in una voragine e fagocitò la fanciulla tenuta stretta da Ade possente che per un attimo emerse dalle viscere della terra, per poi richiudersi rubandole così in pochi istanti, la vita. La ragazza emise un grido straziante, lunghissimo e acuto; un grido però che solo Zeus, Ecate, il Sole e Demetra udirono. La dea si precipitò alla ricerca della figlia, ma invano.
Per nove giorni allora l’augusta Demetra vagò
sulla terra, stringendo in mano fiaccole ardenti:
chiusa nel suo dolore, non si nutriva né di ambrosia
né di dolce nettare, né immergeva le membra nell’acqua.
(Inno a Demetra, 47-50)
E questo è quanto facevano dal 15 al 18 di boedromione i mystai ad Atene nelle acque vicino al Pireo: gli iniziati provvedevano alla purificazione di sé stessi attraverso il digiuno e le abluzioni rituali. Una processione collettiva partiva poi il 19 del mese lungo la Via Sacra che da Atene conduce ad Eleusi, e tutti, iniziati e non, stringevano una fiaccola accesa a evocazione dei nove giorni in cui Demetra, raminga, cercava la figlia. Finalmente il decimo giorno, Ecate venne in aiuto della dea e la condusse da Elios, il Sole, il dio che per sua natura tutto vede.
Appresa la verità, sdegnata, ferita nell’intimo, Demetra abbandonò l’Olimpo e gli altri dèi, e decise di scendere sulla terra abitata dagli uomini, nel villaggio di Eleusi, assumendo le sembianze di una vecchia. Era il suo modo per dire che la sottrazione – ingiusta – della figlia equivaleva a privarla della giovinezza, della fertilità, dell’abbondanza.
Afflitta nel cuore, sedeva lungo la strada,
all’ombra, presso il pozzo Partenio, cui attingeva acqua
la gente.
(Inno a Demetra, 99-101)
Furono le figlie del principe di Eleusi che, col consenso dei genitori, ospitarono l’anziana donna in qualità di nutrice dell’ultimo nato della famiglia, Demofonte:
(…) un figlio maschio
amatissimo, nato tardi, dopo lunga attesa e speranza.
(Inno a Demetra, 164-165)
Con Demofonte ritorna il binomio fertilità-sterilità: il bambino venne alla luce quando si pensava che la madre Metanira fosse sterile, pertanto la sua nascita smentiva questa condizione, rappresentando al contrario un trionfo della vita. Fin dal momento in cui Demetra varcò la soglia della dimora del principe, i presenti capirono subito che quella donna non era come le altre: la sua statura era più alta – così come si credeva fossero gli dèi rispetto agli uomini – e una luce divina inondò improvvisamente la casa.
La regina piena di stupore quanto le figlie e le ancelle, invitò Demetra a sedersi sul trono e a bere una coppa di vino mielato, ma la dea, triste in volto e silenziosa, rifiutò.
Ha inizio da questo momento della storia una serie di elementi fondanti il rituale eleusino; l’angoscia e l’astensione della dea dal cibo e dalle bevande venivano commemorate infatti con la purificazione e il digiuno preliminari. Fu una delle serve che ruppe il ghiaccio e strappò un sorriso alla dea:
Finché l’accorta Iambe, con scherzi e con molti
motteggi, indusse la dea veneranda
a sorridere, a ridere e a rasserenare il suo animo
(Iambe che anche poi fu sempre cara al suo cuore).
(Inno a Demetra, 202-205)
Gli scherzi e i motteggi di Iambe venivano riprodotti dai fedeli in processione attraverso atti osceni ed esclamazioni scurrili, in corrispondenza di alcune delle stazioni rituali, le quali prevedevano una sosta ed erano contrassegnate da tempietti disposti ai lati della Via Sacra.
L’unica bevanda che Demetra chiese di bere fu il ciceone, prima di allora sconosciuto agli uomini. Si trattava di una miscela di acqua, farina e menta che gli adepti bevevano dopo aver riposto i sacri oggetti nella cella del santuario. Era ormai sera quando i fedeli e i sacerdoti arrivavano ad Eleusi; i mystai e lo ierofante entravano nel telesterion, accessibile solo a loro, e si preparavano alla celebrazione dei misteri veri e propri. Perché nel cuore della notte, Demetra compiva un rito segreto e decisamente inquietante:
Così la dea allevava nel palazzo lo splendido
figlio di Celeo, Demofonte, che Metanira dall’alta cintura
aveva generato: e il bimbo cresceva simile a un dio,
senza nutrirsi di cibo né suggere <latte materno> Demetra
lo ungeva d’ambrosia quasi fosse il figlio di un dio,
leggermente alitandogli sopra e stringendolo al seno.
Di notte lo avvolgeva nella vampa di fuoco, come un tizzone,
all’insaputa dei genitori: per loro era un grande stupore
come cresceva precoce e assomigliava agli dèi.
(Inno a Demetra, 233-241)
Il fuoco aveva una funzione salvifica, purificava e rigenerava. Di più: l’esposizione di Demofonte alla fiamma serviva a conferirgli l’immortalità.
Pare che i sacerdoti evocassero questo momento facendo scivolare sul proprio corpo riproduzioni plastiche dell’organo femminile; in questo modo erano simbolicamente rigenerati dalla grande madre Demetra e donati a nuova vita. Tutto questo accadeva la notte del 19 di boedromione.
Ma il destino di Demofonte si rivelò, come in un avverso gioco, lo stesso di Persefone. Accadde infatti che Metanira volle spiare la nutrice, profanando così il rito che Demetra stava compiendo. Alla vista del figlio immerso nel fuoco, gridò terrorizzata e la purificazione si interruppe.
irata con lei, Demetra dalla bella corona
con le mani immortali allontanò da sé il bimbo,
che la donna aveva generato – inatteso – nel palazzo, e a terra
lo depose lontano dal fuoco, furibonda nel cuore.
(Inno a Demetra, 251-254)
Come Persefone era stata sottratta alla luce del sole e aveva fatto il suo ingresso nelle viscere della terra, così Demofonte era stato strappato al fuoco salvifico e, con la sua deposizione lontano da esso, era stato affidato alla terra. Fu in questo momento che Demetra si rivelò a Metanira:
O mortali sciocchi e insensati, incapaci
di prevedere il destino, buono e cattivo!
Anche tu per la tua sventatezza gravemente hai sbagliato.
Giuro infatti – giuramento divino! – sullo Stige spietato
che avrei reso tuo figlio immortale ed eternamente
giovane e gli avrei concesso un onore infinito;
ora invece non potrà sfuggire alla morte e al fato.
(Inno a Demetra, 257-262)
Demetra ordinò agli Eleusini di costruire per lei un grande tempio dove lei stessa avrebbe insegnato loro i riti,
“(…) perché poi,
celebrandoli in modo pio, plachiate il mio cuore”.
Così dicendo, la dea cambiò statura ed aspetto,
scacciando la vecchiaia: bellezza le aleggiava intorno,
un'amabile fragranza si diffondeva dal peplo
odoroso, e dal suo corpo immortale la luce
si irradiava lontano; i biondi capelli le coprivano le spalle,
e la solida casa si riempì come della vampa d’un lampo.
(Inno a Demetra, 273-280)
Ecco dunque Demetra. Eccola nel suo naturale splendore, quello che mai avrebbe dovuto perdere, perché se perduto, la vita degli uomini sarebbe stata tormentata dalla fame. E infatti proprio questo accadde allorché la dea prese dimora nel suo tempio, addolorata per la nostalgia della figlia.
Sopra la terra feconda essa rese terribile e odioso
quell’anno per gli uomini, perché nei campi i semi
non germogliavano: li nascondeva Demetra dalla bella corona.
Molti aratri ricurvi i buoi tiravano invano nei campi,
molto bianco orzo cadde vanamente nella terra.
E avrebbe distrutto la stirpe degli uomini
con la fame spietata, e avrebbe sottratto ai signori dell’Olimpo
l’onore glorioso delle offerte e dei sacrifici,
se Zeus non ci avesse pensato, meditando nel suo cuore.
(Inno a Demetra, 305-313)
Zeus… come avrebbe potuto vivere il signore degli dèi senza gli esseri umani, i mortali, che dalla loro condizione sfavorita lo riempivano di lodi? E come lui la pensavano le altre divinità. L’Olimpo si sarebbe trasformato in un noioso viavai di immortali senza che mai una fine li attendesse.
Ordinò dunque al fratello Ade di restituire Persefone, e Ade acconsentì, stranamente senza opporre resistenza. Perché Ade, astuto, aveva già meditato un inganno, un piano che avrebbe legato Persefone per sempre a sé: prima di affidarla a Ermes, il messaggero inviato da Zeus a prenderla, la costrinse a mangiare un chicco di melograno, frutto dai molteplici significati.
Innanzitutto chi mangiava cibo offerto nel regno dei morti doveva rimanere con loro per sempre: anche se si trattava di un solo chicco, Persefone si vincolò irrevocabilmente al mondo sotterraneo. Nell’antichità poi, la mela e il melograno erano ritenuti frutti afrodisiaci: mangiandone, la fanciulla pronunciò simbolicamente il suo sì ad Aidoneo.
Per la moltitudine dei suoi semi infine, il melograno rappresentava la fecondità; ecco allora che cibandosi di quel chicco, Persefone si preparava a divenire madre, a divenire Demetra lei stessa. Non a caso infatti ad Atene, madre e figlia erano le dee per eccellenza e talvolta la loro identità si fondeva, poiché alla scomparsa della figlia, anche Demetra “moriva”, così che l’una era il duplicato dell’altra. Dalla fatale compromissione di Persefone col regno degli inferi, Zeus…
Stabilì che sua figlia, anno dopo anno,
per un terzo del tempo stesse dentro la densa tenebra
e per due terzi accanto alla madre e agli altri immortali.
(Inno a Demetra, 445-447)
La morte e la risurrezione di Persefone avvenivano infatti in corrispondenza dell’arresto e del risveglio della natura. Con le parole che le rivolse Demetra:
Non appena la terra a primavera si coprirà di fiori
profumati e variopinti, dalla tenebra densa subito risalirai,
grande prodigio per gli dèi e per gli uomini mortali.
(Inno a Demetra, 401-403)
Il ritorno di Persefone e il suo ricongiungimento con la madre, predispose la dea nuovamente alla fecondità dei campi,
e subito fece spuntare il frutto dalle campagne feconde,
e tutta l’ampia terra si ricoprì di foglie
e di fiori. Ed essa andò dai re che danno sentenze
– Trittolemo e Diocle agitatore di cavalli,
il possente Eumolpo e Celeo, condottiero di eserciti –
e mostrò loro l’esecuzione dei riti e rivelò a tutti
– a Trittolemo, a Polissero e inoltre a Diocle –
i sacri misteri, che non è consentito profanare né indagare
né rivelare, poiché la reverenza per gli dèi frena la voce.
(Inno a Demetra, 471-479)
I principi di Eleusi furono dunque i primi depositari dei Sacri Misteri. E con la resurrezione di Persefone, si giungeva al momento culminante delle Demetriache.
Nella notte fra il 21 e il 22 i devoti si riunivano in una veglia di preghiera e una rappresentazione sacra ricordava il rapimento della figlia della dea. Al termine, lo ierofante usciva dal telesterion illuminato da una grande fiamma e pronunciava il ritorno della fanciulla dal mondo infero proclamando:
La dea ha generato un figlio divino: Brimò ha generato Brimòs!
Brimòs indicava il figlio maschio, ossia Demofonte, mentre Brimò era il nome al femminile a indicare la figlia femmina, in questo caso Persefone. Ecco allora che il frutto della gravidanza in cui si trovò Persefone dopo aver mangiato il chicco di melograno era nient'altri che Demofonte.
Generato da Persefone, Demofonte poté divenire immortale perché era stato portato a termine il rito interrotto. La sua nascita da Persefone simboleggia inoltre la rigenerazione della natura. Ma la salvezza proveniente dalle due dee non si fermava al solo ambito materiale. I Misteri Eleusini assicuravano agli iniziati anche la beatitudine dopo la morte, indipendentemente dalla condotta tenuta in vita. Le Demetriache erano insomma un’autentica esaltazione della vita e se fossimo vissuti allora e fossimo stati insieme a quei fedeli, avremmo udito il cantore chiudere così quei dieci giorni dedicati alle dee:
Voi, dee che regnate sulla terra di Eleusi odorosa
e su Paro marina e su Androne petrosa:
tu, Demetra, augusta dea, signora delle messi, ricca di doni,
e tu, bellissima Persefone, sua figlia,
premiate benigne il mio canto con l’amabile prosperità.
E io canterò te, e anche un’altra canzone.
(Inno a Demetra, 490-495)
Come rendere degnamente nell'arte una storia così struggente nonché densa di quelle entità rivali che sono alla base dell’esperienza umana, ovvero la vita e la morte, la fame e l’abbondanza, la sterilità e la fertilità? Fortunatamente non sono mancati sapienti maestri nel corso dei secoli.
Ciò che della vicenda è stato maggiormente sentito è stato il momento del rapimento della ragazza, un momento caratterizzato da emozioni spinte all’estremo, territorio prediletto dell’arte. In questa rassegna non vedremo mai Demetra, ma la coppia infernale formata da Ade e Persefone.
Sicuramente il ritratto più pacato degli sposi è stato fatto dai Greci, i quali non amavano esaltare nei disegni la violenza o la passione; prediligevano la misura, il controllo emotivo, anche quando ritraevano scene cruente. Ecco allora nella bella coppa a figure rosse proveniente da Vulci, Ade disteso sul letto che invita la sua sposa a bere dalla kylix che le sta porgendo.
Ade e Persefone sulla kylix attica a figure rosse proveniente da Vulci e attribuita al Pittore di Kodros (British Museum, 450-400 a.C.).
Immagine: http://www.theoi.com
Lei è seduta e, dalla direzione dello sguardo si capisce che ignora volontariamente l’offerta, esprimendo così un rifiuto ben più esteso.
La tensione di entrambe è tutta interiore, come richiedeva appunto l’ideale greco della misura, tuttavia i sentimenti che provavano i protagonisti non erano sconosciuti, poiché la conoscenza collettiva dei miti suppliva alla carenza di enfasi della scena.
La coppa è stata decorata dal cosiddetto Pittore di Kodros nel 450-400 a.C. e si trova al British Museum di Londra.
Fra i moderni, primo fra tutti citiamo Gian Lorenzo Bernini. Nella Galleria Borghese a Roma, è custodita la su scultura capolavoro intitolata Il Ratto di Proserpina, eseguita negli anni dal 1621 al 1622, in marmo bianco.
Il ratto di Proserpina del Bernini (Galleria Borghese, Roma, 1621-1622).
In questo blocco di due metri e mezzo, vediamo Ade afferrare energicamente Proserpina sollevandola da terra. La giovane è visibilmente sconvolta e tenta invano di sfuggire alla presa così salda. Ai piedi di Ade, abbaia Cerbero, il cane a tre teste sentinella degl’ingressi maledetti.
Il dinamismo e l’energia del momento sono resi con sorprendente virtuosismo attraverso la scelta dell’artista di movimentare il gruppo con una torsione elicoidale dal basso verso l’alto.
Ma si tratta anche di un’opera in cui la materia utilizzata, il duro marmo, si lascia incredibilmente plasmare nelle mani dello scultore come fosse burro. Lo si apprezza pienamente osservando le dita di Ade che affondano nella morbidezza del corpo di Proserpina. Sembra davvero carne immacolata. Non c’è inoltre muscolo, nervo, lacrima o espressione che siano stati tralasciati. Perfino al vento è stato concesso di scompigliare i capelli di marmo!
La stessa scena viene riproposta nella pittura nel dipinto di Leonello Spada, un pittore bolognese del Seicento, noto come uno dei seguaci di Caravaggio.
Il ratto di Proserpina di Leonello Spada (Modena, collezione privata, 1618).
La forza di Ade e la delicatezza di Proserpina sono sottolineate dalla muscolatura marcata del primo e dal candore della pelle della figlia di Demetra. Il dipinto è immerso in uno sfondo completamente buio, a malapena si distingue il tridente di Ade, uno degli attributi del dio. Questi emerge dalla terra insieme alle tenebre da cui proviene, e il contrasto fra i due regni, terreno e sotterraneo, è estremizzato dalla bianchissima e delicatissima Proserpina, che anche qui come nella scultura del Bernini, protende disperata le braccia al cielo invocando l’aiuto degli dèi. Il quadro si trova a Modena e appartiene a una collezione privata.
Come non ammirare infine il celebre dipinto del poeta e pittore inglese Dante Gabriel Rossetti?
Proserpina di Dante Gabriel Rossetti (Tate Gallery, Londra, 1874).
Situato nella Tate Gallery di Londra, venne eseguito da Rossetti nel 1874 dopo la scomparsa della moglie. Si intitola Proserpina perché nella figura mitologica vide la metafora dell’esperienza dolorosa che aveva appena vissuto: si sentì come Demetra a cui era stata rubata la persona più cara e volle dare a Proserpina proprio il volto della sua amata.
La donna ha uno sguardo serio ma spento. Non vi è sorriso sulle labbra rosse e sensuali. D’altra parte come si può osservare, ha appena morso l’attraente melograno che tiene nella mano sinistra, mentre la destra ne afferra senza energia il polso, come per allontanare il frutto fatale, sapendo tuttavia che ormai è troppo tardi. Un incensiere posto di fronte a lei indica che la figura rappresentata è una divinità.
Da notare poi l’ondulazione che percorre il quadro, conferendogli grazia e femminilità: le pieghe della veste delineano il profilo delicato di Proserpina, il quale prosegue nella curva del collo e termina nel tralcio d’edera che pare inchinarsi alla dea.
In alto a destra, Rossetti ha dipinto un sonetto scritto da lui per Proserpina.
Sul bordo del tavolo dove è posto l’incensiere, è invece affissa una striscia di pergamena con la firma del pittore: Dante Gabriele Rossetti ritrasse nel capodanno del 1877.