Torna a Il mito delle costellazioni di gennaio

 

ORIONE

Orion, Orionis

Ori

 

02 - Orione (mito)

La costellazione di Orione nell'Uranographia di Hevelius (1690).     
Immagine: http://www.atlascoelestis.com

 

«E’ possibile avvistare Orione vicino ai Gemelli
che allarga le braccia su una grande estensione di spazio celeste
e con non minore ampiezza di passi si solleva alle stelle,
a cui luci isolate distinguono gli omeri fulgenti,
mentre le tre trasversali ne tracciano la spada pendente;
ma Orione, immerso il capo nella sublimità del cielo,
con tre luci è contrassegnato nel volto sfuggente,
non perché meno brillanti, ma perché arretrano più in altezza.
Con lui per capo si muovono le costellazioni torno torno la cosmica rotta»
(Manilio, Astronomica I, 387-395)

Ecco come nel freddo cielo notturno ci appare colui che ha dato il nome a una delle costellazioni più belle per semplicità di forma e varietà di stelle.
All’avvicinarsi dell’inverno, un gigante di nome Orione si affaccia sull’equatore celeste, la statura tanto elevata da ergersi notevolmente al di sopra di esso.
Attraverso una scelta di testimonianze letterarie e artistiche pervenuteci dall’Antichità, ricostruiremo la figura di Orione, seguiremo il gigante nel suo cammino terrestre fino a trovarcelo dinanzi ai nostri occhi nel silenzio delle limpide notti invernali.

Iniziamo osservando il bel disegno della costellazione eseguito da Johannes Hevelius (a inizio pagina) alla fine del XVII secolo per addentrarci poi negli antichi testi che ci hanno tramandato le sue vicende.
La tavola di Hevelius rispecchia fedelmente la descrizione fatta dal poeta latino Manilio: Orione ha le braccia aperte, con la mano destra impugna una clava, mentre l’avambraccio sinistro è impegnato a reggere saldamente un grande scudo.
Sulle spalle ci sono le luci isolate, ossia le due stelle che le stilizzano: Bellatrix a destra e Betelgeuse a sinistra.
Tre stelle, Mintaka, Alnilam e Alnitak, si dispongono a formare la cintura, che Manilio in questo primo libro assegna erroneamente alla spada.
Infine il volto, che viene definito sfuggente poiché le tre stelle che lo rappresentano arretrano più in altezza; l’ambigua giustificazione risale all'opinione stoica dell’epoca che le stelle fisse non fossero collocate tutte sulla stessa superficie sferica, ma che alcune si trovassero “più in alto” da interpretarsi però come “più in profondità”, da cui l’arretrare del testo, e altre “più in basso”, ossia “più in superficie”.
Orione lo vediamo risalire la volta celeste con grande ardore, difensivo nella postura. D’altra parte incontro a lui sta avanzando minaccioso il Toro. Una spada formata da tre stelle piuttosto deboli, trafigge il magico telo teso della notte, mentre sul piede sinistro brilla Rigel che, come si può osservare sulla tavola di Hevelius, è immersa nella corrente del fiume Eridano, costellazione che si ferma proprio laddove Orione appoggia il suo piede.

A cavallo dell’equatore, che è il cerchio massimo della sfera celeste, il gigante è considerato dal poeta latino, in posizione privilegiata e si pone perciò a capo delle altre costellazioni, che insieme a lui si muovono torno torno la cosmica rotta.
Stupisce il fatto che egli “immerge” il capo nella “sublimità” del cielo, una contraddizione di termini che trova la sua spiegazione nel voler richiamare l’attenzione alla statura di Orione, quantificata attraverso la collocazione nello spazio della sua testa e dei suoi piedi: il suo capo, ossia la sua estremità superiore, si trova infatti fin nella “sublimità del cielo”, mentre attraverso il verbo “immergere”, che si associa all’acqua e a un movimento dall’alto verso il basso, il poeta latino vuole alludere ai suoi piedi, cioè alla sua estremità inferiore, i quali come dice Virgilio paragonando il guerriero Mezenzio al gigante celeste, non poggiano sulla terra, bensì nelle profondità del mare:

Ma ecco, scuotendo l'asta gigante, Mezenzio
ferocemente entra in campo. Così è grande Orione,
quando a piedi avanzando per l'alte distese di Nereo
s'apre la via, e sovrasta con le spalle le onde,
o dagli altissimi monti un orno annoso portandosi
pone i passi sul suolo, tra i nembi il capo nasconde:
così con l'armi giganti avanzava Mezenzio.
(Virgilio, Eneide X, 762-768)

Nell’Eneide, Orione avanza dunque verso le altre stelle poggiando i piedi sul fondale sabbioso di Nereo, il figlio di Ponto (che in greco significa “mare”) e di Gea (il nome greco della “terra”), mentre nel firmamento troviamo l’evocazione celeste del contatto perpetuo del gigante con l’acqua e con l’aria nel piede immerso nel fiume Eridano (acqua), e nella testa al cospetto della sublimità del cielo (aria).

Ma chi era questo gigante chiamato Orione?
Innanzitutto è bene precisare che egli, pur presentandosi con l’epiteto di gigante, non appartiene alla stirpe dei Giganti che attaccarono le sedi olimpiche. Con l’attributo si vuole indicare l’altezza smisurata e la corporatura colossale di un uomo della stirpe dei mortali anche se, come vedremo, in alcune versioni del mito sua madre è Gea, la dea Terra.
La sua identità si perde in un tempo mitico così remoto che già gli antichi Greci possedevano molteplici racconti su di lui e spesso discordi fra loro; la tradizione orale ne ha alterato la discendenza e le vicissitudini, per cui è impossibile risalire alla sua prima verità.
Non possiamo far altro allora che tramandare anche noi le tante versioni del mito e lasciar decidere a chi ci ascolta, quale storia ricordare prima addormentarsi nelle notti vegliate da Orione.

Un antico narratore greco vissuto tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C. di nome Apollodoro, raccontò il mito di Orione con queste parole:

Di lui si dice che fosse nato dalla terra e avesse una statura gigantesca. Secondo Ferecide, era figlio di Poseidone e di Curiale. Poseidone gli aveva concesso la facoltà di camminare sulle acque del mare. Orione sposò <per prima> Side, che Era scagliò nell’Ade perché aveva rivaleggiato con lei in bellezza; poi andò a Chio per chiedere la mano di Merope figlia di Enopione. Enopione però lo fece ubriacare e, mentre dormiva, lo accecò e lo gettò sulla riva del mare. Orione si recò allora alla fucina <di Efesto>, rapì un fanciullo, se lo mise sulle spalle e gli ordinò di guidare i suoi passi verso Oriente. Quando vi giunse, un raggio di sole lo colpì ed egli tornò a vedere. Rapidamente allora si mosse per andare ad affrontare Enopione. Ma per Enopione Poseidone fece fabbricare da Efesto una dimora sotto terra; Eos si innamorò di Orione, lo rapì e lo portò a Delo: Afrodite infatti faceva sì che Eos si innamorasse continuamente, perché era andata a letto con Ares. Ma alcuni narrano che Orione fu ucciso perché sfidò Artemide nel lancio del disco, altri che tentò di violentare Opide, una delle vergini degli Iperborei e per questo Artemide lo trafisse con le sue frecce.
(Apollodoro, Biblioteca I, 4, 25-27)

In questa versione del mito, Orione era figlio di Poseidone, il dio del mare, e grazie a lui ebbe il dono di camminare sull’acqua. Alla luce di quanto detto però, questa sua prerogativa è da intendersi dovuta non a una sorta di levità che era in grado di acquisire, bensì di nuovo alla sua statura; per cui in verità il dono si deve interpretare come: Orione era tanto alto che poteva attraversare tutto il mare toccando sempre.

Un altro famoso mitografo latino, Hygino, attribuisce la paternità di Orione a ben tre divinità, secondo un concepimento alquanto curioso:

Giove, Nettuno e Mercurio giunsero presso la casa del re Irieo, in Tracia. Ospitati amichevolmente da lui, gli concessero di scegliere ciò che preferiva. Egli chiese di avere dei figli; allora Mercurio scuoiò il toro che lo stesso Irieo aveva immolato per loro, i tre Dèi orinarono dentro la sua pelle e la seppellirono. Di lì nacque Orione; egli tentò di fare violenza a Diana e fu ucciso da lei. In seguito Giove lo trasportò fra le stelle, ed egli divenne la costellazione che chiamano Orione.
(Hygino, Favole)

Un’origine così fantasiosa e se vogliamo un po’ bizzarra, è invece estremamente interessante poiché in essa è racchiuso il significato del nome Orione e inoltre ci dà anche un’idea del perché questo uomo crebbe con le sembianze di un gigante.
Come accade quasi sempre nei miti greci, nel nome vi è un destino, o un’origine o un attributo esclusivo di colui che lo porta.
Il nome Orione deriva dalla parola greca urein che significa urinare ma anche eiaculare. Ecco allora che nel nome è racchiusa l’origine del nostro personaggio: secondo questa traduzione del verbo urein, egli è nato dalla deposizione del seme di Giove, di Nettuno (il Poseidone di Apollodoro) e di Mercurio, all’interno della pelle di un toro sacrificato. La pelle impregnata è stata infine sotterrata.
Questo insieme di gesti assomiglia molto a un rituale, e così in verità lo si può definire, essendo oltre che compiuto dagli dèi, anche carico di simboli: vi è un toro sacrificato, laddove il sacrificio ha lo scopo di propiziarsi gli immortali, oltre che di onorarli. Il re di Tracia Irieo, evidentemente sterile, immola un suo toro per onorare la visita degli dèi e, così facendo, ottiene il loro favore. Essi si servono quindi del sacrificio ricevuto per esaudire il desiderio del re trace.
La scelta del toro inoltre non è casuale: presso i popoli antichi infatti esso è sempre stato il simbolo della fertilità. E in questo caso specifico è proprio di fertilità che c’è bisogno, desiderando dare alla luce una vita umana.
Il seme poi è l’elemento fecondante, mentre il sotterramento equivale all’atto della fecondazione; la terra viene così resa madre e dal suo grembo partorirà un figlio, come altri ne generò all’alba del Tempo: i Titani, i Ciclopi e i Giganti. La madre Terra è grande e grandi creature da essa scaturiscono: Orione è gigantesco perché è un figlio della Terra, Gea come la chiamavano i Greci.

Ma i figli della Terra, intesi come nati direttamente dalla terra e non da una donna, hanno anche un carattere brutale e infatti il mito ci mostra in varie versioni un individuo violento ed incapace di governare le proprie pulsioni.
Un’immagine ricorrente poi che rincara la dose, è quella che vede il gigante sotto l’effetto accecante del vino. L’isola di Chio fa da sfondo a questa raffigurazione che è imperniata attorno alla vicenda di Merope, come leggiamo in Apollodoro e in altri autori: Orione viene prima ubriacato e poi accecato dal padre di lei, Enopione, presso il quale il cacciatore si era recato a chiedere la figlia in sposa.
Secondo Apollodoro, Enopione era dunque il padre di Merope, ma secondo altri mitografi fra cui Eratostene, Enopione era invece il padre di Orione mentre Merope ne era la moglie, che però non era la madre naturale del protagonista della nostra costellazione. Nonostante i diversi legami parentali, gli elementi del vino e della cecità però rimangono, mentre ciò che cambia è la motivazione: l’accecamento di Orione da parte di Enopione avviene infatti a seguito della violenza che il gigante fece a Merope in stato di ubriachezza.
L’eccesso di vino acceca la ragione e di tal sorta dovrà essere la pena; così Orione, accecato nei sensi, verrà punito con l’accecamento degli occhi.
E comincia ora il lungo pellegrinaggio di Orione verso oriente, dove ha la sua dimora il Sole, simbolo della luce e in questo caso anche della redenzione.

Il cacciatore non è però solo nel suo viaggio, come possiamo vedere nel quadro di Nicolas Poussin intitolato Orione cieco alla ricerca del sole nascente, ma lo guida, in piedi sulle sue spalle, un fanciullo di nome Cedalione, operaio della fucina di Efesto, il dio fabbro. Giunto finalmente a destinazione, il primo raggio di sole che tocca i suoi occhi, gli ridà la vista.

 

02 - Orione (mito)

Il dipinto di Poussin intitolato Orione cieco alla ricerca del sole nascente (The Metropolitan Museum of Art New York, 1658)
Immagine: www.metmuseum.org/toah/works-of-art/24.45.1/


In questo quadro del 1658 custodito al Metropolitan Museum of Art di New York, possiamo vedere anche la figura di Artemide, in piedi su una nuvola che guarda il gigante nel suo faticoso cammino.
Il pittore volle raffigurare Artemide insieme alle nuvole, dopo aver letto una tarda interpretazione meteorologica della favola di Orione; ella, che oltre a essere la dea della caccia è spesso collegata anche con la Luna, rappresenterebbe il potere della luna di raccogliere i vapori della terra e restituirli sotto forma di pioggia. Il paesaggio che infine Poussin ha voluto delineare, in accordo col carattere primordiale della leggenda, è quello della terra alle sue origini, quando la natura era ancora abbondante e incolta.

Apollodoro ci racconta poi della storia di Orione con Eos.
Eos era l’Aurora e il mitografo ci riferisce che Afrodite, la Venere dei Romani, suscitò in lei una passione incessante per Orione, per punirla di una scappatella con Ares, del quale era invece lei l’amante.
Ma anche un’altra dea ebbe in odio Eos; era la bella Artemide, dea della caccia, la quale punì la delicata spasimante privandola per sempre del suo oggetto d’amore.
Proprio come Eos si sentì la ninfa Calipso, quando Ulisse partì da lei per tornare alla sua casa e, incollerita, si scagliò contro gli invidiosi dèi…

Così quando l'Aurora dita rosate Orione si scelse,
voi v'adiraste, o dèi che vivete beati,
finché in Ortigia Artemide trono d'oro, la casta,
con le sue miti frecce lo raggiunse e l'uccise.
(Omero, Odissea, V, 121-124)

Ma fu davvero così? Ci fu anche chi sostenne che Orione istigò Artemide, Diana per i Romani, e per questo fu trafitto dalle sue frecce, episodio che divenne per il poeta latino Orazio un monito a non usare la forza a scopo di male, poiché Di odere vires omne nefas animo moventes, ossia gli Dèi odiano la forza che spinge l’animo a commettere il male, come pare fece Orione:

… ci è ben noto anche Orione, che insidie
tendeva alla casta Diana
e che fu domo dal virgineo strale.
(Orazio, Odi III, 69-72)

Il pittore viennese Daniel Seiter dipinse nel 1685 Diana presso il cadavere di Orione, quadro esposto al Museo del Louvre.

 

02 - Orione (mito)

Diana dinanzi al cadavere di Orione di Daniel Seiter (Louvre, 1685).

 

Artemide si è appena macchiata dell’omicidio di Orione, eppure lo guarda con le lacrime agli occhi come se avesse perduto un amato, più che il suo violentatore. Pare infatti impossibile in questo dipinto che proprio Diana sia stata la sua assassina.

Ma Orione tuttavia divenne famoso soprattutto per la sua abilità nella caccia, l’arte propria della dea, come ci racconta Ulisse quando, scendendo nell’Ade profondo, incontrò l’anima del grande cacciatore:

… vidi Orione gigante
cacciare in branco le fiere pel prato asfodelo,
quelle che sempre uccideva sui monti solinghi,
con mazza di solido bronzo, che mai può spezzarsi.
(Omero, Odissea, XI, 572-575)

Orione il gigante è stato infine ridotto a vaga ombra frenetica del mondo sotterraneo e dimenticato dei morti, eppure allo stesso tempo lo ammiriamo troneggiare splendente in quello incantato del firmamento.
E sebbene il suo collocamento nella volta celeste abbia smarrito ancora una volta il suo motivo originario in qualche vicolo sperduto del tempo, è rimasta però intatta l’identità di chi lo volle lì, nel regno delle stelle: fu Artemide… Sì, ancora lei. Innamorata? Carnefice? Giustiziera? Non lo sapremo mai.
Ma forse non importa. Il gigante che ha vissuto nel nome dell’impeto, ora nel bene ora nel male, anche un altro dio lo ha voluto celebrare nella sublimità del cielo. Questo dio ha voluto la costellazione di Orione nella sua rappresentazione dell’universo su uno scudo leggendario, quello appartenuto all’eroe più maledetto, ma che ha infiammato il cuore di ogni generazione al trascorrer della giovinezza: Achille.
Il dio era quell’Efesto presso il quale Orione si era recato quando era cieco e sullo scudo di Achille,

Vi fece la terra, il cielo e il mare,
l'infaticabile sole e la luna piena,
e tutti quanti i segni che incoronano il cielo,
le Pleiadi, le Iadi e la forza d'Orione
e l'Orsa, che chiamano col nome di Carro:
ella gira sopra se stessa e guarda Orione,
e sola non ha parte dei lavacri d'Oceano.
(Omero, Iliade, XVIII, 483-489)


 

 

 

 

Torna a Il mito delle costellazioni di gennaio